giovedì 7 luglio 2011

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martedì 5 luglio 2011

No TAV, no Cav.


Quasi perfetto. Come un delitto. Peccato che questa nuova norma dul Lodo Mondadori faccia piuttosto rumore, anzicché passare in sordina secondo le speranze (mal riposte) del Presidente del Consiglio. Una volgare norma per salvare il volgare denaro del Premier, che viaggia in elicottero e consola il suo pesante lavoro di politico e imprenditore con festini a luci rosse.
E intanto chi decide di salvare la Val di Susa da inutili e dispendiosi (nonché nocivi alla vita dell'intera valle) lavori, viene etichettato come un "volgare delinquente" (Cicchitto). Fermo restando che "la violenza uccide la politica" (Vendola), e che ogni rivoluzione, se necessaria, richiede comunque una contrapposizione (e al momento gli italiani non sono nelle condizioni di opporre la dottrina di Gandhi), di volgare, finora, abbiamo assistito solo alle farse del Cav e dei suoi discepoli. Italiani, grandi teatranti. Va in scena l'Italietta delle orge, l'Italietta dei panni sporchi stesi ai balconi (prendiamo esempio: chi ha qualche problemone in famiglia, non abbia paura di spargerlo ai quattro venti, per sfogarsi e liberarsi dei rospi indigesti, Italia docet).
La scrittura è il mezzo più efficace per risolvere i nostri problemi: nessuna medicina cicatrizza meglio e in maniera rapida le nostre ferite interiori (i cui segni restano comunque nel tempo, indelebili: Look back in anger).
E allora, per liberarsi di questo rospo italiano, italianissimo, non usiamo bottiglie di ammoniaca, iperché i poliziotti, per dirla con Pasolini, sono i poveri, mentre chi sta al governo non scende in mezzo alla gente comune, non si sporca le mani, sniffa polvere bianca, e non certo quella dell'Eternit, partecipa ai funerali dei soldati uccisi in Afghanistan e subito dopo va a pranzo a piazza di Spagna. Non indignatevi, va in scena la meravigliosa lugubre farsa dell'Italietta di oggi.

martedì 21 giugno 2011

God save the King.

Per consuetudine entrò in vigore l'inno God save the Queen. Per costumanza, anche un despota s'insinua lentamente come un tarlo in un Paese. E il Paese lo accetta e lo fagocita come un tumore che non riconosce e contro cui non sa prestare opposizione. Figurarsi in una famiglia: ciò che è sangue del proprio sangue non sarà mai riconosciuto come dispotico o falso. Nessuno potrà mai far cadere dal piedistallo un sovrano, finché ci governa. Quando ciò accade, si svela la Rivoluzione. Ciò a cui si assiste oggi, serpeggiante fra i giovani, è l'Antirivoluzione: i ragazzi vivono sempre più a lungo presso la propria famiglia, impossibilitati a trovare uno sbocco lavorativo o solo incapaci di spronarsi a lasciare il nido familiare: perché è maggiormente comodo stare presso i genitori, farsi accudire piuttosto che assistere, assuefarsi alla vecchia maniera anziché che individuare una nuova strada. Per conseguenza non saranno nemmeno in grado d'inseguire i principi in cui credono, o di crearsene di altri. La Famiglia, regina di se stessa e sempre meno tradizionalista, dovrebbe giocarsi le ultime carte e spendere i suoi buoni propositi prorio in questo: non opprimere i suoi figli attirandoli a sé come le falene intorno al lampione, contrastare le idee sprovvedute di certi giovani ma in maniera costruttiva, per consentirgli di crearsi un altro futuro in un nuovo nucleo familiare. Un Padre Padrone che sceglie di opprimere o contrastare le scelte maturate dei propri figli crea soltanto malessere e insoddisfazione in chi è costretto a sopportarne i meccanismi perversi. E oramai il vecchio inno britannico, nonostante la regina sia ancora in carica, suona davvero desueto e stridente.


lunedì 20 giugno 2011

Così sia.



Tacitamente a volte credo

che gli angeli ci stiano accanto

e facciano sbattere le finestre ai temporali

per metterci in guardia

avvisarci dei mali

in agguato.



Gli stessi angeli

hanno soffiato via

le nuvole ai matrimoni,

ci hanno sorretto le spalle

e donato

il più bel sorriso stellato.



Se credi che così sia
il tuo sogno

non sarà mai un'utopia.








mercoledì 8 giugno 2011

La sposa bambina.



In Rajastan, ancora oggi, le spose sono bambine che contraggono matrimonio con uomini adulti. Anche nello Yemen, in Nepal, in Afghanistan, si usa mandare in sposa le proprie figlie e costringerle ad abbandonare la famiglia d'origine per quella del marito. Sole, abbandonate a se stesse fra cenci e povertà, senza istruzione, le bambine lottano con gravidanze precoci e mariti violenti. La loro purezza trascende quella delle bambine a cui sono abituati i nostri occhi.

Strappate all'infanzia spesso solo per porre fine a faide familiari, come debiti per risolvere questioni sorte prima che loro stesse nascessero, i loro giochi si tramutano in incubi concreti dove non esiste nessuna possibilità di scampo.

Il matrimonio evita anche sacrifici alla famiglia d'origine: per studiare occorre denaro, spesso risparmiato a favore dei figli maschi considerati un bene superiore e inviolabile.

Nessuno dubita che i matrimoni, nei Paesi liberi e democratici, siano frutto dell'incontro fra due individui che si amano. I matrimoni combinati sono ormai un genere estinto, e nonostante alcune famiglie tentino ancora di esercitare un'opposizione quando considerino negativamente un'unione, nei Paesi ricchi gli sposi hanno la libertà di scegliersi, e se sfortunati, di opporsi ai tentativi maldestri dei familiari.

Nei Paesi poveri, invece, le bambine sono costrette a partorire ignare delle trasformazioni del proprio corpo: non sanno che in grembo portano un'altra minuscola creatura, non hanno la minima conoscenza del sesso, e anche se immature fisicamente vengono piegate ad avere rapporti con uomini molto più vecchi, con conseguenti emorragie e fistole, e il giorno successivo spesso le suocere esaminano con soddisfazione le lenzuola macchiate di sangue.

Siamo nel 2011, vent'anni fa avremmo considerato questa data con la curiosità che si riserva al futuro. Eppure, lontano dai nostri occhi benestanti, ancora oggi, coperta da un velo bianco, c'è una bambina che sta andando in sposa.

martedì 3 maggio 2011

And justice for All.









Gli americani scendono nelle strade, salutano la notizia con orgoglio, gridano gioiosi. La scena ricorda i festeggiamenti del 2001 in Afghanistan: i bambini lanciavano caramelle, gli adulti esultavano. La democrazia ha vinto, ha sostenuto Barack Obama nel suo discorso. Come? Spargendo altro sangue, mostrando prima una foto di Bin Laden ucciso da due colpi di proiettile, il volto martoriato presumibilmente da una furia omicida che due soli proiettili non avrebbero reso tale; ritrattando poi la versione e sostenendo che l'immagine è un fotomontaggio; infine seppellendolo frettolosamente in mare perché il suo corpo scomodo viene rifiutato da tutti, e rimarrà invisibile da vivo e da morto (C. Mineo).
Giustizia è fatta, ha concluso Obama, il cui indice di gradimento sarà certamente migliorato. L'umanità ha sete di vendetta. L'America aveva bisogno di dimostrare a se stessa e al mondo intero di essere una Nazione forte, unita, che si batte per la giustizia. L'America doveva placare il senso di vergogna, di disfatta dei suoi figli, riscattare l'insoddisfazione delle coscienze americane. Il mandato di cattura verso Bin Laden, emesso nel 2001, ha trovato la sua trionfante conclusione nell'uccisione del terrorista, e persino nella negazione di una sua sepoltura terrestre: come se si fosse trattato di un mostro marino da relegare negli abissi, finalmente ricollocato agli Inferi.

Ma davvero il mondo è più sicuro, davvero il trionfo americano corrisponde a una vittoria della democrazia? Al contrario, come afferma lo scrittore pachistano Erfan Rashid, si dovrà assistere a un'evoluzione pericolosa del terrorismo jihadista, con prevedibili attacchi all'Europa, agli USA e a tutti i simboli dell'Occidente - presumibilmente lo stesso Vaticano è in serio pericolo.



Negli USA vige ancora la pena di morte, e la sensibilità italiana è in netta contrapposizione a quella statunitense: il cardinale Bagnasco ha pregato per l'anima di Bin Laden. Tuttavia, appare un controsenso scindere l'innegabile intento terroristico del capo di Al Quaeda dall'essenza della sua anima: per questo motivo Barack Obama ha creduto di annientare o indebolire il terrorismo colpendone la mente responsabile del crollo delle Twin Towers.

Gli USA non sembrano però considerare che il terrorismo è un'azione diffusa ad opera di più menti dissolute. D'altra parte agli occhi di molti musulmani la stessa operazione compiuta in Pakistan equivale a un'azione terroristica. Dunque lo scontro fra islamici e cristiani è una sconfitta in partenza, uno scontro immutato fra civiltà.
Al di là dell'utopia pacifista, in nessun caso il sangue versato può aprire a una speranza di miglioramento per il mondo. L'umanità ha il compito di aprirsi una strada verso il futuro per mezzo del dialogo e attraverso la parola, piuttosto che sferrando colpi di machete all'intricato groviglio della foresta in cui inutilmente si dibatte. Affinché la specie umana non rappresenti un frutto casuale dell'evoluzione ma accresca le sue forze e faccia confluire quest'energia nel benessere comune. Per non stravolgere il mondo, ma renderlo un luogo in cui violenza e sopraffazione siano solo un incubo lontano.

giovedì 28 aprile 2011

E se domani.








Le interferenze, in amore, sono sempre presenti. Non c'è una relazione amorosa senza interferenza, più o meno intensa in funzione di chi ci circondiamo o siamo circondati. Circondare ha più l'accezione dell'assediare, opprimere. Scegliamo le nostre amicizie, ma molto spesso non possiamo scegliere chi la vita c'impone: per questioni di lavoro, per motivi di nascita, o per semplice casualità. L'interferenza può essere intesa come il rumore di fondo in spettrofotometria: qualcosa che si sovrappone alla purezza del componente in esame. L'amore è un'affinità di onde, un'armonia di suoni che si stagliano contro le stelle all'unisono. Quando voci esterne si sovrappongono alla sinfonia, si crea una dissonanza. L'amore diventa una poesia con versi stonati. Una poesia può essere armoniosa anche se i versi non sono in rima; ma è indispensabile che l'intreccio formato sia uniforme come le fronde dei rami in un bosco, altrimenti somiglia a un campo di grano in cui vento e pioggia hanno lasciato chiazze di piante accasciate incapaci di ondulare al vento. Così è l'amore: spesso si lascia infestare dalla zizzania, e il suo prato fiorito si abbandona senza regole al loglio. Per questo motivo il parroco del film "Casomai" chiede ai presenti di uscire: perché il matrimonio è un fatto privato, e come tale riguarda e interesserà solo chi contrae il matrimonio.



Kate e William stanno per sposarsi. Lei avrebbe firmato un documento in cui si dichiara pronta a rinunciare ai propri figli in caso di divorzio. E milioni di occhi indiscreti osserveranno gli sposi innanzi all'altare dell'Abbazia di Westminster. Posto che l'amore non prevede clausole ma una comune libertà d'idee, sentimenti, opinioni; posto che i figli non sono oggetti di proprietà, ma affetti indissolubili dalla carne di chi li ha generati; mostrare qualcosa d'infinitamente intimo e personale di fronte al mondo fa scadere la promessa eterna in una scenetta da telenovela, come il prezioso anello di fidanzamento riprodotto in migliaia di patacche in vendita come souvenir a Londra. Un matrimonio, in fondo, simboleggia l'unione durevole di due che si amano: la fede è circolare al pari dell'universo in cui il tempo si estende e ritorna, e similmente la vita ripete ciclicamente il suo corso. La celebrazione può avvenire in mille stili diversi, da quello solenne a quello agreste, ma ciascuna ha una funzione ben precisa: rendere pubblica di fronte alla società la propria unione. Ci si può sposare anche in riva al mare, con due invitati. Ma il mondo ha bisogno di saperlo. Certo William è un principe, e la sua vita è destinata a rimanere pubblica. Eppure l'amore in sordina, quello discreto fra pochi parenti e amici, risuona maggiormente nei cuori. E prevede meno fastidiose interferenze.

martedì 26 aprile 2011

Il tempo della farfalla.



C'è un tempo in un cui restare, fermarsi, soffermarsi a guardare, riflettere. E c'è un tempo per correre, decidersi, stabilire, rinunciare a soprassedere, incaponirsi, verificare, smontare e rimontare i pezzi dell'esistenza per plasmarne di nuovi. Come la farfalla, il cui minimo battito d'ali può provocare un uragano dall'altra parte del mondo. E questo è dunque il tempo della farfalla. Il tempo di agire, a cui ciascuno risponde a modo suo. E il nostro agire può mutare il corso degli eventi. Persino se scegliamo di voltare l'angolo la nostra vita può cambiare. Se una mattina anzicché camminare a passo sostenuto per recarci al lavoro decidiamo di prendercela comodamente, scopriamo il volto nuovo delle cose. E questo dovrebbe essere l'insegnamento: voltare pagina non significa necessariamente cambiare vita, tagliare con il passato, allontanarsi da se stessi e dagli altri. Al contrario, può essere utile costruire il nuovo attraverso uno sguardo diverso, non disincantato ma felicemente illuso: guardare fra le pieghe degli attimi svelando il segreto del quotidiano nel fondo dell'esistenza. Tutto sommato nessuna scelta è sbagliata, purché consenta di approfondire e chiarire l'insolvenza di fronte al passare del tempo. Ciascuno ha il suo tempo in cui portare a compimento l'esercizio del presente. Oltre quel limite c'è solo la vertigine del vuoto. C'è chi perde la vita professando una pace fino all'ultimo respiro, ed è un eroe. C'è chi spende la sua vita seduto in mezzo al deserto ricercando la sapienza dell'ascesi, ed è un santo. C'è poi chi si ubriaca, salta da un balcone credendo di finire nella piscina, e invece si fracassa a terra, e questo è un imbecille che ha gettato la sua vita in pasto ai vermi e di lui si ricorderanno gli amici come di quello sbronzo. A ciascuno la sua vita, potremmo dire. Certo chi di sé lascia traccia infonderà una terribile nostalgia negli altri quando verrà a mancare. E questo vuoto che proviamo quando qualcuno ci lascia perché il suo tempo si è esaurito, sia egli giovane o vecchio, sano o malato, sia la sua scomparsa improvvisa o annunciata, è il vuoto che con i nostri versi e le nostre parole in prosa siamo chiamati a colmare.



venerdì 15 aprile 2011

Restiamo umani.

Io non credo nei confini, nelle barriere, nelle bandiere, credo che apparteniamo tutti, indipendentemente dalle latitudini e dalle longitudini, a una stessa famiglia, che è la Famiglia Umana,

Vik.


Una sola domanda: perché?

Sottinteso: non perché è stato ucciso ma: perché morire per mano del proprio stesso ideale? Si può morire in guerra, per salvare la vita a qualcuno, per testimoniare la violenza inaudita degli israeliani contro Gaza, per una giusta causa. Di lui il portavoce di Hamas Ahmad Youssef ha detto che era un uomo nobile. Quasi a giustificare la propria incompetenza o mancanza di volontà nel liberarlo, subito accampando l'ipotesi israeliana. E forse anche Vittorio Arrigoni avrebbe preferito crederlo: i servizi segreti israeliani sono i soli responsabili. Ma se davvero la sua morte fosse stata opera di un conflitto interno allo stesso Territorio palestinese, e venisse strumentalizzata per additare Israele, che certo non è immacolata e deve rispondere di altri crimini umanitari, tutto il lavoro del peacereporter verrebbe macchiato dal sangue dell'odio, dove nessun ideale trova spazio.

I salafiti non esistono, dicono i palestinesi. Sono un'espressione geografica africana. Eppure appartengono anche a Gaza, che lo si voglia o meno, sia pure in ristretta minoranza.


Certo Vittorio non era palestinese, ma occidentale. E per quanto possa aver agito per assicurare un futuro migliore al popolo palestinese, per quanto potesse indossare il kefiah e mettere a repentaglio la pelle per salvare i bambini, o solo provare pietà per un popolo espropriato della sua terra, c'era comunque il rischio che venisse percepito come filo-occidentale dalle fazioni estremiste palestinesi.


E' giusto, morire per un ideale, nella misura in cui lo si è posto come luogo di conflitto e risoluzione della propria coscienza. Ma Vik si è ritrovato di fronte a un Paese con due teste: l'una amica e inerme, rappresentata dai civili, contadini, bambini orfani, donne umili; l'altra pericolosa e fuori del controllo persino di Hamas, formata da soldati votati alla violenza e alla rappresaglia.


La sua fama da un lato lo ha avvolto in un'aura di benevolenza, dall'altra gli ha esposto il fianco in maniera irrimediabile. Lo scandalo, in questo mondo, è che davvero la terra è stata creata senza confini: i confini sono stati innalzati dall'umanità, che ha stabilito una bandiera per ogni Paese.


Ma Vittorio Arrigoni non c'è più, il suo Blog si è fermato alla mattina di ieri, prima che venisse rapito, e non ci saranno più altri post. Non è in nome del silenzio e della morte che dobbiamo apprendere a vivere. Avremmo dovuto cogliere le sue parole quando era in vita. Il suo messaggio è che l'unica bandiera per cui valga la pena di lottare, e di morire, è la bandiera dell'umanità.

Grazie, Vittorio.

Come accade ormai da millenni, la comprensione delle parole avviene dopo la morte di colui che ha parlato.

martedì 12 aprile 2011

Invadenza: cos'è, come difendersi.



Che cos'è l'invadenza? Invadente è colui che invade. Può essere limitativa, come definizione, ma rende il significato concreto di quanto accade. Si può essere discreti, si può essere invadenti, si può trovare un equilibrio...Alcune persone non lo troveranno mai, consapevoli o meno di fare del male. Perché chi sopporta un carattere invadente, solitamente è discreto e tende a essere delicato in ogni situazione. Per contro, l'invadenza non può essere svergognata: chi si comporta grossolanamente tende a telefonare anche nelle ore notturne in cui tutti dormono, a decidere per gli altri, a soffocare gli altri, e forse anche a denigrarli, incapace di vedere oltre il suo naso, convinto di essere moralmente corretto. Quindi chi si comporta con invadenza ha solitamente un'alta stima di sé, tende a comandare, a insistere sul suo punto di vista.

Il punto è: come difendersi? E inoltre: è davvero giusto difendersi? Oppure bisogna porgere l'altra guancia, accettando l'altro e lasciandosi manipolare? La difesa scatta nell'istante in cui l'altro si sente invaso nel suo privato. Ogni cittadino, in quanto libero individuo con una sua personalità, ha il diritto di preservare la propria sfera privata, nonché il dovere di accudirla e proteggerla.

Un mobile può essere invadente, quando risulta ingombrante, di troppo. Così si tende a distanziarlo dagli altri mobili, alla ricerca di un equilibrio nell'arredamento. Ma un essere umano non è un mobile: si sposta, telefona, improvvisa, sorprende con l'inatteso, si mimetizza nel nostro quotidiano. Non ci accorgiamo più della sua presenza, se non quando il suo agire va oltre la norma. E cerchiamo di correre ai ripari, stimolando nell'altro aggressività perché destabilizziamo le sue abitudini, oppure soltanto ci lasciamo invadere dalla sua presenza, rassegnati.

Può apparire paradossale, ma è proprio l'invadente che avverte una destabilizzazione nel suo quotidiano. Perché il discreto ha lasciato correre, non ha dato importanza, non ha innalzato un recinto, si è soltanto allontanato in punta di piedi, nella speranza che si fosse instaurata una giusta relazione. Questa relazione non deve necessariamente corrispondere a una sintonia: si può vivere serenamente anche con caratteri diversi od opposti: l'indispensabile è rispettarsi reciprocamente in un dialogo aperto, e non affrontare l'altro alle spalle oppure gestirlo come si può gestire una cucina da riassettare: gettando via ciò che di lui non gradiamo oppure lavando via i suoi avanzi. Il colmo si raggiunge quando due caratteri invadenti s'incontrano: allora s'innescano le scintille del litigio, e in certi casi si finisce con l'interrompere ogni rapporto. Non è questo che il discreto desidera. Chi ha tatto ricerca solo serenità ed equilibrio. Dunque chi intende mettere zizzania o decidere per lui dimostrerà solo la propria incapacità di entrare in armonia con gli altri, di accettarli e apprezzarli, probabilmente perché la sua autostima è talmente forte che lo priva di una pur minima cognizione di giudizio.

venerdì 1 aprile 2011

Lo sguardo imperturbabile.



<La vita è breve per tutti, e il problema sta nel farne qualcosa di valore>, V.V.G.


In ogni suo autoritratto Van Gogh esprime disperazione, rabbia, sgomento. Uno sguardo impassibile, impietoso con se stesso e l'intero genere umano. Ma ce n'è uno che si discosta dagli altri. E' uno sguardo che parla sommesso, con dolcezza, quasi avesse compassione dell'umanità che lo spinse al suicidio. E' l'unico che riesca a guardare e a conservare nella mia libreria. L'unico senza il quale poter stare nei momenti tristi. Uno sguardo buono, che non giudica con severità, ma ascolta partecipando dei nostri moti d'animo. I suoi occhi sapienti sanno le nostre sventure, e sanno che in proporzione alla propria disperazione esiste solo la freddezza glaciale delle stelle che hanno gridato nei suoi quadri alle pareti della casa del fratello Theo. Perché il suo sguardo va oltre l'esistenza terrena. Van Gogh non svanì nel misero letto di una locanda. Semplicemente amplificò il proprio sentire trasferendosi al di là del mondo, tramandando la propria essenza in quello sguardo che raggiunge tutti ovunque, assordando piacevolmente la gente comune da copertine, tazze, persino copridivani e lenzuola.

Come scelse di andarsene? Nella maniera più geniale possibile, se è concesso parlare di genio nello scegliere il momento d'interrompere la propria esistenza carnale. Cito Giordano Bruno Guerri: Molti credono, romanticamente, che V.G. si sia ammazzato proprio lì (dove dipinse il "Campo di grano con volo di corvi") . Invece V.G. scelse la buca del letame. La buca del letame, pensate. Non c'è posto più assurdamente logico, per un uomo che considera così poco la propria vita da volersene liberare. Poi si tirò su, perché la ferita all'addome non era grave, e oggi lo avrebbero salvato. Si trascinò fino alla locanda, zoppicando. Era considerato un povero pazzo, uno sbandato, e la sua morte si guadagna qualche riga di cronaca nera. Il sacerdote non volle concedere il carro per trasportare la salma al cimitero, ma il fratello Theo ne ottenne la sepoltura in terra consacrata, a Auvers. Auvers, a pronunciarlo, sembra il mormorio del vento in mezzo ai campi. Un fruscio che fa ondeggiare il grano in una pennellata di oro, sotto l'azzurro fresco di un'estate in realtà torrida. Un ospite della locanda, dice di V.G.: Quando Vincent morì fu terribile, più terribile ancora di quando era vivo. Dalla bara, che era fatta male, usciva un liquido fetido. Tutto era terribile, in lui. Credo che abbia sofferto molto, su questa terra. Non l'ho mai visto sorridere.

Van Gogh detestava Raffaello. Il suo tratto geniale non sopportave la perfezione del pittore italiano. L'arte di Raffaello traeva ispirazione dall'amore per le belle cortigiane, i discorsi colti e raffinati, la luce preziosa. A Van Gogh invece interessava la gente povera, la nuda terra, il colore forte delle cose, la loro violenza, il loro irrompere nell'esistenza. I suoi soggetti raffigurano contadini, mangiatori di patate, campi arati, ulivi torturati dal vento e dalle intemperie. E la donna che voleva sposare, dopo le innumerevoli delusioni amorose, era una prostituta incinta che a sua volta, vent'anni dopo, scelse di gettarsi nelle gelide acque di un fiume.

C'è un baratro, fra Van Gogh e Raffaello, ma non trovo altro titolo degno di accomunare lo sguardo della "Fornarina" e questo dell'autoritratto al Kroller-Mueller Museum.

C'è qualcosa di strisciante che li unifica in un abbraccio inconsapevole: è la Pietas, un sentimento simile alla devozione o alla misericordia, ma che definirei più un incanto. In entrambe le tele si sta osservando uno sguardo incantato di fronte all'universo, uno spirito che trascende il presente e si estende nell'infinito. E di riflesso quest'incanto si rivolge a noi che osserviamo, e ne veniamo travolti, e per gl'istanti che ne abbiamo percezione, ci libriamo assieme a questi due giganti nel flusso eterno delle cose, come trascinati dalla marea s'una spiaggia collocata in una recondita parte della nostra mente. E per un attimo coincidono gli animi opposti dei due pittori, l'uno sereno e riflessivo, l'altro impulsivo e isterico: Ordine e Caos, passato e presente, perché ciò ch'è stato possiamo collocarlo in sequenza, ma ciò che avviene è un flusso costante di eventi che vengono ordinati solo attraverso il ricordo, vale a dire solo dopo che l'evento si è depositato sul fondo di noi stessi.

Raffaello ha la pennellata perfetta, miracolosa, quasi elaborata al microscopio. Van Gogh ha una pennellata energica, nervosa, sussultata. Due modi opposti di parlare, chi in maniera sommessa, appena sussurrata, chi urlando a squarciagola la propria desolazione e il proprio male di vivere. Ma in entrambi si esprime la stessa luce, la medesima integrità d'animo, la stessa poesia, la stessa libertà e comunione con l'universo che ciascuno, a modo suo, si porta dentro.

lunedì 14 febbraio 2011

Il chiodo nel palmo della mano.

Un giorno ti dissi

"Non ferirmi,

nemmeno con una parola".

Il chiodo che porto nella mano

è il chiodo dei crocifissi.

Ieri le piazze erano gremite di donne. Donne forti, coraggiose, che non temono lo schiaffo dell'Otello che le sovrasta. Eppure quante donne, nel quotidiano, fra le mura di casa, trovano la violenza ad abbracciarle e soffocarle. La violenza, in senso lato, è un coltello che ci squarcia la gola. Un coltello vero, o per le più fortunate solo dei lividi; ma è anche il coltello della parola che ci toglie in gola la voce. Il coltello che recide un legame amoroso, il cordone ombelicale che ci unisce all'altro perché dall'altro traiamo reciproco nutrimento. La violenza non è solo fisica, ma anche verbale. Talvolta le parole fanno più male di un colpo ricevuto alle spalle, inconsciamente. Troppo spesso la donna è in bilico fra il rispetto e il disprezzo. Troppo spesso scivola nel baratro della colpa, del sentimento di vergogna per qualcosa che non ha commesso. La convivenza fuori dal matrimonio è uno di questi elementi che giustificano o autorizzano un uomo (di solito un padre, ma non necessariamente suo padre) a colpevolizzarla. Persino la Chiesa ne fa un peccato. Lei che invece dovrebbe difendere i più deboli, gl'innocenti, ne fa una disgraziata. E invece la donna è il più delicato fiore che sbocci fra l'erba, colma di rugiada all'alba e sempre fresca nell'animo anche quando è scialba e mostra un viso stanco solcato dalla fatica. La donna sa ammaliare con la sua bellezza, ma essendo di carne e non potendo restare l'angelicata fanciulla botticelliana si spacca la schiena per conciliare il suo lavoro con l'ordine della casa o della famiglia. Questo perché si è scoperto con il progredire della civiltà che il genere femminile non si manifesta solo attraverso la perfidia della mela rubata nella Genesi, e la donna non è sempre impudica e ladra, quindi già sgualdrina; con il trascolorare dei secoli la femminilità è stata associata anche alla mano accurata che ricama, intesse, dipinge, intarsia. Mente che produce o insegna un sapere, esercitando un mestiere che non è quello più vecchio del mondo, bensì quello del precettore, una volta affidato solo all'uomo. Sofonisba Anguissola a metà Cinquecento dimostrò che le sue candide mani non erano solo mani belle e curate, ma soprattutto sapienti e dignitose, in un secolo in cui la donna era fermamente ancorata soltanto alle faccende domestiche, relegata impietosamente nell'angolo dell'ignoranza. Pilar, nel film "Ti do i miei occhi", trova lavoro grazie alla sua passione per l'Arte, deprecata dal marito che invece la vorrebbe soltanto ad accudire la casa.

Fiera d'essere Donna, la donna si avvale della sua dolcezza per assicurare un futuro al mondo, perché è colei che serba il seme e lo traduce in vita che si perpetua a nuova vita. I suoi baci sono stelle che risplendono nel cielo, il suo canto è il vento che disperde lontano ciò che con tanta cura ha accudito in grembo. Le sue dita disegnano il futuro di ogni specie, umana o animale. E allora perché sfigurarne il volto e metterlo oscenamente in mostra, perché strapparle a morsi ciò di cui maggiormente può andar fiera, la sua dignità? Suona strano, tuttavia è truce verità che ancora esista uomo che afferrandola per i capelli che ne coprono l'onore svergogni questa povera Venere e come Pilar la mostri nuda di fronte al mondo, scaricandole vigliaccamente addosso proiettili di fango. Per poterla ricacciare in fondo all'Oceano da cui ha preso vita, per rinnegare quel simbolo di Bellezza e di Humanitas che vuole essere anche speranza, carità, bontà, intelligenza, ovvero qualcosa che sfugge all'uomo, o a un certo tipo di uomo, di pensiero, d'ideologia. Per mascherare le proprie nefandezze con il cerone dell'ipocrisia, scagliarsi contro un presunto femminismo imperante piuttosto che riconoscersi nei propri limiti e inettitudini.

domenica 6 febbraio 2011

Me ne vado, ti lascio nella sera.



Me ne vado, ti lascio nella sera della terra che muore. Me ne vado al Nord, dove il denaro gira e la monnezza viene smaltita correttamente. Me ne vado via, ti lascio sola, terra del sole, terra dove sono nata, sbarazzandomi della tua ingombrante presenza, buttandomi alle spalle l'orrore dei cani morti abbandonati nella strada durante la pioggia, gonfi per la decomposizione come i miei avi sepolti in mezzo al fango. Me ne vado, come se potessi vivere senza togliermi dalla testa gli occhi di una bambina che stava morendo, gli occhi di tanti giovani mandati al macello, occhi dolci, umili, senza lacrime, come gli occhi delle bestie trafitte dal proiettile che le destina alle nostre tavole. Occhi che urlano, nel loro silenzio intelligente, tutto il diritto di vivere, di non essere mangiate, di non essere fagocitate dalla società più forte di loro.

Me ne vado, sto correndo verso il mio roseo futuro lontano anni luce dalla rivolta di Terzigno, dai lacrimogeni, dal lancio delle pietre, dalla puzza. Me ne vado per dimenticarti, cara terra d'Italia, per considerarti solo un pezzo in cancrena e perciò da rimuovere chirurgicamente.

Me ne vado, me ne sono già andata da tempo, ormai sono anni che vivo lontana, anni che ti ritrovo da turista, quasi ai margini, tronfia della mia sicurezza da cittadina serena con la sua Chiesa, il suo quartiere, il suo posto di lavoro.

Ma sarei davvero la donna di oggi, senza di te? Sarei davvero qui a scrivere, senza la tua presenza, senza la forza che mi hai iniettato nelle vene da bambina, senza la carne di cui tu stessa mi hai nutrita?

Sarei davvero io, senza di te?

Allora, vederti morire, è come veder morire una parte di me stessa. Come assistere al funerale della propria infanzia, a una folle danza macabra sulla tomba di chi ha già smesso di respirare, al quale non resta più niente per potersi difendere. A commettere questo scempio è lo Stato che cura i propri interessi intrecciandoli a quelli della camorra. Uno Stato che dovrebbe assicurare uguaglianza e giustizia, felicità e benessere. E che per contro maneggia per arricchirsi alle spalle del cittadino, indifferente all'inquinamento e all'incidenza dei tumori che sta decimando la popolazione. Uno Stato opportunista che spreme una parte dell'Italia facendola soccombere pur di poterci trarre un guadagno.

La politica, in Italia, ha portato un'enorme spaventosa epidemia di peste: quella del'egoismo, dell'ipocrisia, dell'immoralità, che sta infettando tutti gli italiani.

venerdì 28 gennaio 2011

Cronaca di una morte annunciata.

L'Italia, nella sua realtà effettiva, è quel Cavaliere che sfida la morte per avere ancora del tempo da vivere. In effetti il Cavaliere è così scaltro che sta per vincerla; ma per salvare i due che si amano e distrarre il giocatore, fa cadere alcuni pezzi sulla scacchiera perdendo la partita. L'Italia potrebbe ancora riscattarsi, agli occhi del mondo. Potrebbe ancora avere una partita da giocare. Ma non ne ha l'interesse, né il tempo, pienamente indaffarata dietro alle questioni quotidiane della fatica per arrivare a fine mese: dell'altro Cavaliere, il suo Presidente del Consiglio, non può curarsi se non marginalmente, per distrarsi dalla routine, per allontanarsi un poco dai suoi guai, ignara che il suo guaio più grosso è proprio l'oggetto che gli consente di estraniarsi per poco dalle fatiche quotidiane. Se solo potesse immaginarlo, si sarebbe già attrezzata, magari proprio in senso figurato con la pala per il muratore o la tastiera del pc per l'impiegato, per mandare al diavolo il suo Cavaliere. Che di buono ha ben poco: se perderà la partita, la parderà per i suoi vizi, piuttosto che per le sue virtù (per altro inesistenti).

L'Italia ha ancora del tempo, per decidere se andare incontro al suo futuro oppure starsene sbracata ad aspettare di essere scavalcata da altri Paesi sempre più forti economicamente e culturalmente. Ma il tempo che le è destinato sta per scadere. Lo smacco più grosso sarà rendersene conto, prenderne atto a partita chiusa. I veri vinti, si sa, non saranno i parlamentari e i senatori a vita fautori della decadenza morale e del miserevole tenore di vita degli italiani. I veri vinti saranno, come tristemente accade nella realtà, i cittadini più deboli, fragili in quanto già incerti del proprio avvenire. Allora si griderà al tradimento, ma Berlusconi sarà già lontano nelle menti e gli italiani si ritroveranno molto più poveri di oggi. Eppure non è una popolazione più numerosa che fa la forza: uno Stato diventa stabile e governabile quando i cittadini sono uniti per assolvere un fine comune, vale a dire un futuro migliore per tutto il Paese. L'India e la Cina non sono forti grazie al numero maggiore dei cittadini, ma per merito dell'idealizzazione del proprio ruolo nella società che hanno saputo assemblare. Certo, la pecca degli italiani è la mancanza di volontà nel procreare e formare una famiglia, il basso tasso di natalità comunque bilanciato dalla presenza dei cittadini extracomunitari che rappresentano una sorta di "ancora di salvezza". Ma l'età media va innalzandosi sfiorando i sessant'anni. Con le relative problematiche cui far fronte: aggravio sull'assistenza sanitaria, pensioni sempre più numerose, impauperamento generale. In una parola: decadenza.

E' l'ora di darci un taglio e costruire un futuro concreto per i nostri figli. Perché una culla di frasche non protegge dalle intemperie, una casa di foglie verrà spazzata via dal vento, e l'Italia, ricchissima di opere d'arte e menti geniali vedrà sfaldare il proprio patrimonio artistico sotto una giornata di pioggia forte come è accaduto per Pompei.

mercoledì 26 gennaio 2011

Se non ora, quando?



Le parole di Primo Levi aprono a una domanda essenziale che ruota intorno alla radice dell'essere. Non c'è domanda senza ricerca di una plausibile risposta, nella misura in cui ogni problema reca in sé la sua soluzione, evidente o celata che sia. Una risposta improcrastinabile, irrinunciabile, alla quale non possiamo sottrarci. Domani si celebra la Giornata della Memoria. Mai come in questi giorni di crisi e rivolte risulta attuale. La memoria, si sa, è il nostro bagaglio di esperienze vissute o immaginate. La memoria trascende l'individuo e lo consacra a creatura sapiente e veggente. L'essere umano differisce dall'animale, anch'esso capace di ricordare, in quanto capace di discernere fra gli eventi storici il morale dall'immorale. Il flusso storico rappresenta un pozzo senza fondo a cui attingere al momento del bisogno. La Storia insegna che la Shoah rappresenta l'incommensurabile catastrofe che segnerà per sempre la fronte di ogni essere umano, passato presente o non ancora nato, finché l'umanità avrà respiro. La Storia racconta con voce ferma e sicura; nel suo Verbo la tenebra diventa luce, il passato si mescola al presente e ricomincia a pulsare attuale.
Stiamo ascoltando in questi giorni l'urlo dei popoli in rivolta: la Tunisia s'infiamma, l'Algeria riecheggia rabbiosa la ribellione, l'Egitto reclama la sua parte. La crisi economica ha sviluppato i suoi frutti colpendo i Paesi più sensibili alla rivolta. L'Italia, dalla sua ovattata condizione senza tempo, sospesa fra torbidi scandali sessuali e bassezze d'animo, trattiene il respiro. Un Paese saturo di cultura, potenzialmente forte, dichiara la sua piena inettitudine a far fronte alla Storia. Preferendo starsene ai margini, incapace d'indignarsi o di prendere una posizione coerente.
Ogni popolo porta scritto nella carne le atrocità dell'olocausto. E così ogni popolo deve farsi carico del proprio destino, accogliendo il peso delle responsabilità e lottando per assicurare a tutti la libertà di pensiero e d'espressione, il diritto di vivere serenamente e in piena consapevolezza, il dovere di conservare l'ambiente in cui vive assicurando alla propria discendenza i valori per i quali in passato altri hanno lottato e versato sangue. Non c'è dubbio che un eccesso di benessere può indebolire la facoltà visiva. Nei paesi ricchi la maggior parte della popolazione ha un pasto assicurato e una casa riscaldata in cui trovare ristoro. Paradossalmente, è proprio dagli Stati Uniti, nazione fino a qualche anno fa potenza mondiale dove la crisi ha trasformato le case in roulotte o baracche, che viene il grido ottimista di un Presidente per incoraggiare l'innovazione e il rilancio dell'economia.


Quali cause hanno portato al sacrificio di milioni d'individui, oltre alla crisi economica che spaventosamente riflette le vicende presenti? L'affermarsi del nazifascismo ha trovato forse terreno fertile nella vigliaccheria e nella corruzione della popolazione fragile e non ancora pronta a una rivoluzione culturale? Ogni forma di razzismo, omofobia malcelata, svilimento della donna, può farci fermare a riflettere, a ripensare il passato alla luce degli eventi attuali? Con quale tranquillità d'animo possiamo pensare il nostro futuro, accettando di essere governati da vertici corrotti? L'umanità è in grado di evitare le catastrofi, ma non è capace di opporsi alle stragi, non sa sfuggire ai conflitti di religione, non ha una risposta per ogni male.

Nella nostra piccola Italia, colpevole come la Germania di tirannie ed epurazioni, il livello di corruzione attuale, d'immoralismo, di mancanza di valori, ha oltrepassato la soglia del sopportabile.
E tuttavia possiamo opporci alla manipolazione mediatica con le nostre stesse forze, attraverso i blog, il teatro, la scrittura, l'arte. Perché finché la Cultura avrà spazio nelle nostre menti, ci sarà uno spiraglio di salvezza.
Ma per lasciare spazio alla Cultura, bisogna gettarsi alle spalle l'era berlusconiana e crearsi una seconda pelle, come i rettili, destinati a strisciare ma capaci di fare la muta.