lunedì 14 febbraio 2011

Il chiodo nel palmo della mano.

Un giorno ti dissi

"Non ferirmi,

nemmeno con una parola".

Il chiodo che porto nella mano

è il chiodo dei crocifissi.

Ieri le piazze erano gremite di donne. Donne forti, coraggiose, che non temono lo schiaffo dell'Otello che le sovrasta. Eppure quante donne, nel quotidiano, fra le mura di casa, trovano la violenza ad abbracciarle e soffocarle. La violenza, in senso lato, è un coltello che ci squarcia la gola. Un coltello vero, o per le più fortunate solo dei lividi; ma è anche il coltello della parola che ci toglie in gola la voce. Il coltello che recide un legame amoroso, il cordone ombelicale che ci unisce all'altro perché dall'altro traiamo reciproco nutrimento. La violenza non è solo fisica, ma anche verbale. Talvolta le parole fanno più male di un colpo ricevuto alle spalle, inconsciamente. Troppo spesso la donna è in bilico fra il rispetto e il disprezzo. Troppo spesso scivola nel baratro della colpa, del sentimento di vergogna per qualcosa che non ha commesso. La convivenza fuori dal matrimonio è uno di questi elementi che giustificano o autorizzano un uomo (di solito un padre, ma non necessariamente suo padre) a colpevolizzarla. Persino la Chiesa ne fa un peccato. Lei che invece dovrebbe difendere i più deboli, gl'innocenti, ne fa una disgraziata. E invece la donna è il più delicato fiore che sbocci fra l'erba, colma di rugiada all'alba e sempre fresca nell'animo anche quando è scialba e mostra un viso stanco solcato dalla fatica. La donna sa ammaliare con la sua bellezza, ma essendo di carne e non potendo restare l'angelicata fanciulla botticelliana si spacca la schiena per conciliare il suo lavoro con l'ordine della casa o della famiglia. Questo perché si è scoperto con il progredire della civiltà che il genere femminile non si manifesta solo attraverso la perfidia della mela rubata nella Genesi, e la donna non è sempre impudica e ladra, quindi già sgualdrina; con il trascolorare dei secoli la femminilità è stata associata anche alla mano accurata che ricama, intesse, dipinge, intarsia. Mente che produce o insegna un sapere, esercitando un mestiere che non è quello più vecchio del mondo, bensì quello del precettore, una volta affidato solo all'uomo. Sofonisba Anguissola a metà Cinquecento dimostrò che le sue candide mani non erano solo mani belle e curate, ma soprattutto sapienti e dignitose, in un secolo in cui la donna era fermamente ancorata soltanto alle faccende domestiche, relegata impietosamente nell'angolo dell'ignoranza. Pilar, nel film "Ti do i miei occhi", trova lavoro grazie alla sua passione per l'Arte, deprecata dal marito che invece la vorrebbe soltanto ad accudire la casa.

Fiera d'essere Donna, la donna si avvale della sua dolcezza per assicurare un futuro al mondo, perché è colei che serba il seme e lo traduce in vita che si perpetua a nuova vita. I suoi baci sono stelle che risplendono nel cielo, il suo canto è il vento che disperde lontano ciò che con tanta cura ha accudito in grembo. Le sue dita disegnano il futuro di ogni specie, umana o animale. E allora perché sfigurarne il volto e metterlo oscenamente in mostra, perché strapparle a morsi ciò di cui maggiormente può andar fiera, la sua dignità? Suona strano, tuttavia è truce verità che ancora esista uomo che afferrandola per i capelli che ne coprono l'onore svergogni questa povera Venere e come Pilar la mostri nuda di fronte al mondo, scaricandole vigliaccamente addosso proiettili di fango. Per poterla ricacciare in fondo all'Oceano da cui ha preso vita, per rinnegare quel simbolo di Bellezza e di Humanitas che vuole essere anche speranza, carità, bontà, intelligenza, ovvero qualcosa che sfugge all'uomo, o a un certo tipo di uomo, di pensiero, d'ideologia. Per mascherare le proprie nefandezze con il cerone dell'ipocrisia, scagliarsi contro un presunto femminismo imperante piuttosto che riconoscersi nei propri limiti e inettitudini.

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