giovedì 28 aprile 2011

E se domani.








Le interferenze, in amore, sono sempre presenti. Non c'è una relazione amorosa senza interferenza, più o meno intensa in funzione di chi ci circondiamo o siamo circondati. Circondare ha più l'accezione dell'assediare, opprimere. Scegliamo le nostre amicizie, ma molto spesso non possiamo scegliere chi la vita c'impone: per questioni di lavoro, per motivi di nascita, o per semplice casualità. L'interferenza può essere intesa come il rumore di fondo in spettrofotometria: qualcosa che si sovrappone alla purezza del componente in esame. L'amore è un'affinità di onde, un'armonia di suoni che si stagliano contro le stelle all'unisono. Quando voci esterne si sovrappongono alla sinfonia, si crea una dissonanza. L'amore diventa una poesia con versi stonati. Una poesia può essere armoniosa anche se i versi non sono in rima; ma è indispensabile che l'intreccio formato sia uniforme come le fronde dei rami in un bosco, altrimenti somiglia a un campo di grano in cui vento e pioggia hanno lasciato chiazze di piante accasciate incapaci di ondulare al vento. Così è l'amore: spesso si lascia infestare dalla zizzania, e il suo prato fiorito si abbandona senza regole al loglio. Per questo motivo il parroco del film "Casomai" chiede ai presenti di uscire: perché il matrimonio è un fatto privato, e come tale riguarda e interesserà solo chi contrae il matrimonio.



Kate e William stanno per sposarsi. Lei avrebbe firmato un documento in cui si dichiara pronta a rinunciare ai propri figli in caso di divorzio. E milioni di occhi indiscreti osserveranno gli sposi innanzi all'altare dell'Abbazia di Westminster. Posto che l'amore non prevede clausole ma una comune libertà d'idee, sentimenti, opinioni; posto che i figli non sono oggetti di proprietà, ma affetti indissolubili dalla carne di chi li ha generati; mostrare qualcosa d'infinitamente intimo e personale di fronte al mondo fa scadere la promessa eterna in una scenetta da telenovela, come il prezioso anello di fidanzamento riprodotto in migliaia di patacche in vendita come souvenir a Londra. Un matrimonio, in fondo, simboleggia l'unione durevole di due che si amano: la fede è circolare al pari dell'universo in cui il tempo si estende e ritorna, e similmente la vita ripete ciclicamente il suo corso. La celebrazione può avvenire in mille stili diversi, da quello solenne a quello agreste, ma ciascuna ha una funzione ben precisa: rendere pubblica di fronte alla società la propria unione. Ci si può sposare anche in riva al mare, con due invitati. Ma il mondo ha bisogno di saperlo. Certo William è un principe, e la sua vita è destinata a rimanere pubblica. Eppure l'amore in sordina, quello discreto fra pochi parenti e amici, risuona maggiormente nei cuori. E prevede meno fastidiose interferenze.

martedì 26 aprile 2011

Il tempo della farfalla.



C'è un tempo in un cui restare, fermarsi, soffermarsi a guardare, riflettere. E c'è un tempo per correre, decidersi, stabilire, rinunciare a soprassedere, incaponirsi, verificare, smontare e rimontare i pezzi dell'esistenza per plasmarne di nuovi. Come la farfalla, il cui minimo battito d'ali può provocare un uragano dall'altra parte del mondo. E questo è dunque il tempo della farfalla. Il tempo di agire, a cui ciascuno risponde a modo suo. E il nostro agire può mutare il corso degli eventi. Persino se scegliamo di voltare l'angolo la nostra vita può cambiare. Se una mattina anzicché camminare a passo sostenuto per recarci al lavoro decidiamo di prendercela comodamente, scopriamo il volto nuovo delle cose. E questo dovrebbe essere l'insegnamento: voltare pagina non significa necessariamente cambiare vita, tagliare con il passato, allontanarsi da se stessi e dagli altri. Al contrario, può essere utile costruire il nuovo attraverso uno sguardo diverso, non disincantato ma felicemente illuso: guardare fra le pieghe degli attimi svelando il segreto del quotidiano nel fondo dell'esistenza. Tutto sommato nessuna scelta è sbagliata, purché consenta di approfondire e chiarire l'insolvenza di fronte al passare del tempo. Ciascuno ha il suo tempo in cui portare a compimento l'esercizio del presente. Oltre quel limite c'è solo la vertigine del vuoto. C'è chi perde la vita professando una pace fino all'ultimo respiro, ed è un eroe. C'è chi spende la sua vita seduto in mezzo al deserto ricercando la sapienza dell'ascesi, ed è un santo. C'è poi chi si ubriaca, salta da un balcone credendo di finire nella piscina, e invece si fracassa a terra, e questo è un imbecille che ha gettato la sua vita in pasto ai vermi e di lui si ricorderanno gli amici come di quello sbronzo. A ciascuno la sua vita, potremmo dire. Certo chi di sé lascia traccia infonderà una terribile nostalgia negli altri quando verrà a mancare. E questo vuoto che proviamo quando qualcuno ci lascia perché il suo tempo si è esaurito, sia egli giovane o vecchio, sano o malato, sia la sua scomparsa improvvisa o annunciata, è il vuoto che con i nostri versi e le nostre parole in prosa siamo chiamati a colmare.



venerdì 15 aprile 2011

Restiamo umani.

Io non credo nei confini, nelle barriere, nelle bandiere, credo che apparteniamo tutti, indipendentemente dalle latitudini e dalle longitudini, a una stessa famiglia, che è la Famiglia Umana,

Vik.


Una sola domanda: perché?

Sottinteso: non perché è stato ucciso ma: perché morire per mano del proprio stesso ideale? Si può morire in guerra, per salvare la vita a qualcuno, per testimoniare la violenza inaudita degli israeliani contro Gaza, per una giusta causa. Di lui il portavoce di Hamas Ahmad Youssef ha detto che era un uomo nobile. Quasi a giustificare la propria incompetenza o mancanza di volontà nel liberarlo, subito accampando l'ipotesi israeliana. E forse anche Vittorio Arrigoni avrebbe preferito crederlo: i servizi segreti israeliani sono i soli responsabili. Ma se davvero la sua morte fosse stata opera di un conflitto interno allo stesso Territorio palestinese, e venisse strumentalizzata per additare Israele, che certo non è immacolata e deve rispondere di altri crimini umanitari, tutto il lavoro del peacereporter verrebbe macchiato dal sangue dell'odio, dove nessun ideale trova spazio.

I salafiti non esistono, dicono i palestinesi. Sono un'espressione geografica africana. Eppure appartengono anche a Gaza, che lo si voglia o meno, sia pure in ristretta minoranza.


Certo Vittorio non era palestinese, ma occidentale. E per quanto possa aver agito per assicurare un futuro migliore al popolo palestinese, per quanto potesse indossare il kefiah e mettere a repentaglio la pelle per salvare i bambini, o solo provare pietà per un popolo espropriato della sua terra, c'era comunque il rischio che venisse percepito come filo-occidentale dalle fazioni estremiste palestinesi.


E' giusto, morire per un ideale, nella misura in cui lo si è posto come luogo di conflitto e risoluzione della propria coscienza. Ma Vik si è ritrovato di fronte a un Paese con due teste: l'una amica e inerme, rappresentata dai civili, contadini, bambini orfani, donne umili; l'altra pericolosa e fuori del controllo persino di Hamas, formata da soldati votati alla violenza e alla rappresaglia.


La sua fama da un lato lo ha avvolto in un'aura di benevolenza, dall'altra gli ha esposto il fianco in maniera irrimediabile. Lo scandalo, in questo mondo, è che davvero la terra è stata creata senza confini: i confini sono stati innalzati dall'umanità, che ha stabilito una bandiera per ogni Paese.


Ma Vittorio Arrigoni non c'è più, il suo Blog si è fermato alla mattina di ieri, prima che venisse rapito, e non ci saranno più altri post. Non è in nome del silenzio e della morte che dobbiamo apprendere a vivere. Avremmo dovuto cogliere le sue parole quando era in vita. Il suo messaggio è che l'unica bandiera per cui valga la pena di lottare, e di morire, è la bandiera dell'umanità.

Grazie, Vittorio.

Come accade ormai da millenni, la comprensione delle parole avviene dopo la morte di colui che ha parlato.

martedì 12 aprile 2011

Invadenza: cos'è, come difendersi.



Che cos'è l'invadenza? Invadente è colui che invade. Può essere limitativa, come definizione, ma rende il significato concreto di quanto accade. Si può essere discreti, si può essere invadenti, si può trovare un equilibrio...Alcune persone non lo troveranno mai, consapevoli o meno di fare del male. Perché chi sopporta un carattere invadente, solitamente è discreto e tende a essere delicato in ogni situazione. Per contro, l'invadenza non può essere svergognata: chi si comporta grossolanamente tende a telefonare anche nelle ore notturne in cui tutti dormono, a decidere per gli altri, a soffocare gli altri, e forse anche a denigrarli, incapace di vedere oltre il suo naso, convinto di essere moralmente corretto. Quindi chi si comporta con invadenza ha solitamente un'alta stima di sé, tende a comandare, a insistere sul suo punto di vista.

Il punto è: come difendersi? E inoltre: è davvero giusto difendersi? Oppure bisogna porgere l'altra guancia, accettando l'altro e lasciandosi manipolare? La difesa scatta nell'istante in cui l'altro si sente invaso nel suo privato. Ogni cittadino, in quanto libero individuo con una sua personalità, ha il diritto di preservare la propria sfera privata, nonché il dovere di accudirla e proteggerla.

Un mobile può essere invadente, quando risulta ingombrante, di troppo. Così si tende a distanziarlo dagli altri mobili, alla ricerca di un equilibrio nell'arredamento. Ma un essere umano non è un mobile: si sposta, telefona, improvvisa, sorprende con l'inatteso, si mimetizza nel nostro quotidiano. Non ci accorgiamo più della sua presenza, se non quando il suo agire va oltre la norma. E cerchiamo di correre ai ripari, stimolando nell'altro aggressività perché destabilizziamo le sue abitudini, oppure soltanto ci lasciamo invadere dalla sua presenza, rassegnati.

Può apparire paradossale, ma è proprio l'invadente che avverte una destabilizzazione nel suo quotidiano. Perché il discreto ha lasciato correre, non ha dato importanza, non ha innalzato un recinto, si è soltanto allontanato in punta di piedi, nella speranza che si fosse instaurata una giusta relazione. Questa relazione non deve necessariamente corrispondere a una sintonia: si può vivere serenamente anche con caratteri diversi od opposti: l'indispensabile è rispettarsi reciprocamente in un dialogo aperto, e non affrontare l'altro alle spalle oppure gestirlo come si può gestire una cucina da riassettare: gettando via ciò che di lui non gradiamo oppure lavando via i suoi avanzi. Il colmo si raggiunge quando due caratteri invadenti s'incontrano: allora s'innescano le scintille del litigio, e in certi casi si finisce con l'interrompere ogni rapporto. Non è questo che il discreto desidera. Chi ha tatto ricerca solo serenità ed equilibrio. Dunque chi intende mettere zizzania o decidere per lui dimostrerà solo la propria incapacità di entrare in armonia con gli altri, di accettarli e apprezzarli, probabilmente perché la sua autostima è talmente forte che lo priva di una pur minima cognizione di giudizio.

venerdì 1 aprile 2011

Lo sguardo imperturbabile.



<La vita è breve per tutti, e il problema sta nel farne qualcosa di valore>, V.V.G.


In ogni suo autoritratto Van Gogh esprime disperazione, rabbia, sgomento. Uno sguardo impassibile, impietoso con se stesso e l'intero genere umano. Ma ce n'è uno che si discosta dagli altri. E' uno sguardo che parla sommesso, con dolcezza, quasi avesse compassione dell'umanità che lo spinse al suicidio. E' l'unico che riesca a guardare e a conservare nella mia libreria. L'unico senza il quale poter stare nei momenti tristi. Uno sguardo buono, che non giudica con severità, ma ascolta partecipando dei nostri moti d'animo. I suoi occhi sapienti sanno le nostre sventure, e sanno che in proporzione alla propria disperazione esiste solo la freddezza glaciale delle stelle che hanno gridato nei suoi quadri alle pareti della casa del fratello Theo. Perché il suo sguardo va oltre l'esistenza terrena. Van Gogh non svanì nel misero letto di una locanda. Semplicemente amplificò il proprio sentire trasferendosi al di là del mondo, tramandando la propria essenza in quello sguardo che raggiunge tutti ovunque, assordando piacevolmente la gente comune da copertine, tazze, persino copridivani e lenzuola.

Come scelse di andarsene? Nella maniera più geniale possibile, se è concesso parlare di genio nello scegliere il momento d'interrompere la propria esistenza carnale. Cito Giordano Bruno Guerri: Molti credono, romanticamente, che V.G. si sia ammazzato proprio lì (dove dipinse il "Campo di grano con volo di corvi") . Invece V.G. scelse la buca del letame. La buca del letame, pensate. Non c'è posto più assurdamente logico, per un uomo che considera così poco la propria vita da volersene liberare. Poi si tirò su, perché la ferita all'addome non era grave, e oggi lo avrebbero salvato. Si trascinò fino alla locanda, zoppicando. Era considerato un povero pazzo, uno sbandato, e la sua morte si guadagna qualche riga di cronaca nera. Il sacerdote non volle concedere il carro per trasportare la salma al cimitero, ma il fratello Theo ne ottenne la sepoltura in terra consacrata, a Auvers. Auvers, a pronunciarlo, sembra il mormorio del vento in mezzo ai campi. Un fruscio che fa ondeggiare il grano in una pennellata di oro, sotto l'azzurro fresco di un'estate in realtà torrida. Un ospite della locanda, dice di V.G.: Quando Vincent morì fu terribile, più terribile ancora di quando era vivo. Dalla bara, che era fatta male, usciva un liquido fetido. Tutto era terribile, in lui. Credo che abbia sofferto molto, su questa terra. Non l'ho mai visto sorridere.

Van Gogh detestava Raffaello. Il suo tratto geniale non sopportave la perfezione del pittore italiano. L'arte di Raffaello traeva ispirazione dall'amore per le belle cortigiane, i discorsi colti e raffinati, la luce preziosa. A Van Gogh invece interessava la gente povera, la nuda terra, il colore forte delle cose, la loro violenza, il loro irrompere nell'esistenza. I suoi soggetti raffigurano contadini, mangiatori di patate, campi arati, ulivi torturati dal vento e dalle intemperie. E la donna che voleva sposare, dopo le innumerevoli delusioni amorose, era una prostituta incinta che a sua volta, vent'anni dopo, scelse di gettarsi nelle gelide acque di un fiume.

C'è un baratro, fra Van Gogh e Raffaello, ma non trovo altro titolo degno di accomunare lo sguardo della "Fornarina" e questo dell'autoritratto al Kroller-Mueller Museum.

C'è qualcosa di strisciante che li unifica in un abbraccio inconsapevole: è la Pietas, un sentimento simile alla devozione o alla misericordia, ma che definirei più un incanto. In entrambe le tele si sta osservando uno sguardo incantato di fronte all'universo, uno spirito che trascende il presente e si estende nell'infinito. E di riflesso quest'incanto si rivolge a noi che osserviamo, e ne veniamo travolti, e per gl'istanti che ne abbiamo percezione, ci libriamo assieme a questi due giganti nel flusso eterno delle cose, come trascinati dalla marea s'una spiaggia collocata in una recondita parte della nostra mente. E per un attimo coincidono gli animi opposti dei due pittori, l'uno sereno e riflessivo, l'altro impulsivo e isterico: Ordine e Caos, passato e presente, perché ciò ch'è stato possiamo collocarlo in sequenza, ma ciò che avviene è un flusso costante di eventi che vengono ordinati solo attraverso il ricordo, vale a dire solo dopo che l'evento si è depositato sul fondo di noi stessi.

Raffaello ha la pennellata perfetta, miracolosa, quasi elaborata al microscopio. Van Gogh ha una pennellata energica, nervosa, sussultata. Due modi opposti di parlare, chi in maniera sommessa, appena sussurrata, chi urlando a squarciagola la propria desolazione e il proprio male di vivere. Ma in entrambi si esprime la stessa luce, la medesima integrità d'animo, la stessa poesia, la stessa libertà e comunione con l'universo che ciascuno, a modo suo, si porta dentro.