martedì 19 maggio 2009

La morale dell'incoerenza.



Quale azione è giusta, quale sbagliata? Un fiore, per estensione, è coerente nella sua forma. Un fiore è simmetrico, i suoi petali ricorrono in un corretto ordine, il suo essere-fiore consiste nella sua compattezza strutturale, nella sua logica organica, nel suo essere insieme di petali e foglie, rappresentati nella giusta sequenza: il fiore sta in cima allo stelo, le radici stanno alla base saldamente ancorate alla terra, i petali sono racchiusi e uniti a formare la corolla in una simmetria raggiata.
Ma un fiore non ha coscienza della propria struttura, un fiore sboccia e appassisce assolvendo alla sua funzione vessillare d'attrarre gl'insetti impollinatori.
Dunque un'azione, per essere considerata morale o immorale, deve essere compiuta da un organismo pensante, dotato di coscienza, qualità pertinente all'essere umano.
L'essere umano si definisce "cosciente" quando è in grado di compiere azioni coerenti con il proprio pensiero. Mentre definiamo "incosciente" una persona che agisce senza essere in grado di stabilire una correlazione fra il proprio pensiero e l'azione che ne deve scaturire. La persona, per esempio, pensa di compiere un avanzamento nel suo percorso (sentimentale, lavorativo, culturale, etc.), mentre a tutti gli effetti sta retrocedendo o compiendo oscillazioni nella traiettoria, indirezioni di senso.
Dal momento che la coerenza, come si è visto, è nella natura stessa delle cose, è desiderabile e auspicabile correggere il proprio cammino distorto per raggiungere una meta.
Perché ogni nascita comporta un cammino, e ogni vita rappresenta un sentiero diverso, più o meno intersecato a quello degli altri per formare il cosiddetto "tessuto sociale".
Una rosa non potrebbe essere rosa, se il suo bocciolo fosse fra le radici, e le sue foglie costituissero i petali. Un uomo non è uomo se manca di coerenza con i propri sentimenti, se tenta di soffocarli o annegarli in un lago di certezza apparente. Io non sono me stessa, se sorrido agli altri e piango nel mio cuore: non faccio altro che nascondermi dietro l'apparenza, rendendo ancora più evidente la frattura che mi rappresenta. Io divento l'immagine che lo specchio mi riflette, annullando l'altra me stessa che realmente sono. Quando bacio, sono coerente: bacio perché amo, amo e quindi bacio. L'incoerenza sta, all'opposto, nel reprimere un bacio e convincermi che il tempo rappresenti l'evidenza delle cose: io sto con X da Y anni, dunque la/lo amo, senza pormi la domanda: "Se sto con X da Y anni, perché bacio un'altra/un altro?".
L'altra/altro rappresenta la metà di noi stessi da cui abbiamo accettato di restare separati, nella convinzione che la nostra immagine sia davvero quella che lo specchio ci rimanda, il suo sorriso falso, la sua sicurezza, la sua menzogna.
L'essere umano, per gran parte della sua vita, non è in grado di controllare le proprie azioni né tanto meno di farle coincidere con le proprie emozioni. L'essere umano, per definizione, è incoerente, nella misura in cui potrebbe agire con coerenza, in quanto essere pensante, ma preferisce abdicare a se stesso per immaturità o ripiegamento nel mondo. Il mondo lo attira, lo attrae, come gli insetti dai petali e dal profumo del fiore, ma il timore di restarne invischiata trattiene la coscienza, che in questa maniera evita di esporsi e accetta di restare all'oscuro nella caverna, come nel mito raccontanto da Platone. La coscienza non è altro che questa fuga verso la luce all'esterno della caverna, che ci consente di vedere nitidamente la realtà che ci circonda; mentre l'incoscienza è l'attitudine a restare prigioniero delle tenebre (e dunque nell'oblio della sapienza), quel punto cieco sul fondo dell'occhio che il nostro cervello tende a colmare con la percezione dell'insieme.
In conclusione, il conseguimento della verità è dettato da noi stessi che la custodiamo in potenza e siamo in grado di scegliere fra una morale (una coerenza di idee e sentimenti che non possiamo trascendere né rinnegare) e un'immorale, vale a dire la pigrizia della vista corta, il convincimento che la vecchia strada (e dunque l'oscurità rassicurante della caverna tanto simile al grembo materno) sia sempre quella migliore, anche se un giorno potremmo trovarci di fronte a un muro per scoprire che la strada finora percorsa non era lineare, ma apparteneva a un labirinto. E accorgerci con delusione che la vita reale stava fuori, alla luce del sole.

giovedì 14 maggio 2009

Una rosa è una rosa è una rosa è una rosa.


"Se eu mandasse nas palavras" (Se le parole mi obbedissero).

Se le parole mi obbedissero

mi chiederebbero di trasformare il dolore in sorriso

mi accuserebbero di essere folle e razionale

mi direbbero che l'acqua è deserto

che la distanza e la vicinanza sono sinonimi.

Le parole non sono solo ciò che intendo

Non chiedetemi di dominarle o di esserne immune

Le parole oltrepassano la mia comprensione...

(cantata da Mariza).


Una rosa è una rosa è una rosa è una rosa, così come un bacio è un bacio è un bacio è un bacio. Gertrude Stein fu ridicolizzata dalla critica, prima di essere accettata per la sua originale visione della realtà. A tutti gli artisti si presenta la difficoltà d'essere compresi o accettati, nella misura in cui anticipano l'avvenire e rappresentano l'umanità con l'acutezza di sguardo di chi si ritrova al di là dello specchio, a dispetto della massa che per la sua ovvia limitatezza non vede oltre il suo naso, e come il gregge finisce nel burrone seguendo il prevedibile movimento del branco.

Il significato si riflette nel suo significante, come nei petali della rosa si moltiplica la bellezza della rosa stessa. Nel bacio si ritrova lo stesso incantesimo di parola, che viene formulato nell'istante in cui si dona e insieme si riceve il bacio, centuplicato nella sua durata dall'atto di dischiudere le labbra e aspirare l'altro. Una bacio è nient'altro che un bacio, e chi lo dona o lo riceve lo custodisce in grembo, come una parola prima di essere pronunciata.
L'amore è un bacio, senza bisogno di profferir parola.
Ho inserito una foto scattata ieri (17 maggio) in un prato davanti al mare, ma non di una rosa: di un'orchidea spontanea. Dal momento che un concetto deve sottostare a precise regole tassonomiche, descriverò per esteso la nomenclatura del fiore e il suo significato: Limodorum abortivum, che porta questo nome perché molti bottoni fiorali appassiscono ancor prima di sbocciare. E poiché la bellezza è espressione senza parola, è come se il bocciolo custodisse in cuor suo già la forma del fiore che deve nascere, come un bimbo nel grembo materno porta in sé, segretamente, tutta una vita. E' raro, poterlo vedere aperto. Dunque il Limodorum ha una delicatezza e una fragilità maggiore rispetto agli altri fiori, che lo rende prezioso come un valore indispensabile in cui riporre la fede dell'intelletto.
Un fiore è un fiore, ma senza poter parlare, racconta la bellezza, l'armonia del mondo. A volte le parole, con la loro potenza evocativa e la loro magia, possono mostrarci quel sottile filo luminoso che faticosamente inseguiamo per tutta la vita. Altre volte, le parole sono eccedenti, inutili. E' sufficiente un nome, come nel caso del fiore, per svelare la sua essenza. E' sufficiente un bacio, per comprendere un sentimento, far luce nella propria coscienza troppo spesso ingarbugliata e incapace di vedere oltre il proprio naso.
Di qui la riflessione della parola su se stessa, come in uno specchio riflettente: un bacio è un bacio è un bacio è un bacio.
Chi comprende questo, sa che la vita è un testo da decifrare, ma che una parte della vita è già stata decifrata per noi dalla natura medesima delle cose, da un bacio che può sbocciare con la stessa purezza di un'orchidea spontanea.

venerdì 8 maggio 2009

Le parole che non ti ho detto.





...Every time that I'm with you, I feel Life like can feel an angel: I fly around the world as a child without thoughts, as a little love wich pulse in your hand.

Every time that I sleep with you (in my mind), I dream about the universe, I dream the answer to my questions, I dream your white skin, I dream your caress, I dream your eyes.

So, I'm an angel wich fly without hang, and I see all things as a bird, as a flower, with my sweet corolla wich look at the blue sky...

I cannot say you my words, I cannot whisper my verses in your ear, I cannot kiss your lips, I cannot wrap you in my mantle of poetry, I just can tremble in my love, I just can think, on my bed, your presence/absence.

I play my piano with the words, like Einaudi: with frailty.

My dear, is so moving, to play my piano of words, is so moving to feel you, to feel your smell, to feel your voice, to feel your breath...

Leave me say all my thoughts, don't hate me If I love you, don't hate me if I cry, sometimes, the evening, in my loneliness...

My dear, when I travel, I take you with me, into the bag of my heart, your hand in my hand, alone, cross Lisboa's streets, alone but with you...

I've sail on my sailing ship searching stars and planets: I've found you. "I am what I am", you said, and then: "I'm not your".

I've started again, again and again, still alone.

I'm writing, here, with Einaudi wich play behind me.

This evening you'll sing...And I will be an angel wich fly into the hall, over your head, always in your eyes. I will fly as a bird without her mate.


lunedì 20 aprile 2009

Lisboa mon amour

Lisboa ha la leggerezza di un amore vissuto in sogno, sognato in un'altra vita. Una finestra sul fiume della memoria che perennemente scorre e sedimenta fino al termine dei nostri giorni, in un sentimento di saudade che avvolge chi non le appartiene entrando tuttavia a farne parte.
Chi si ferma a Lisboa, diventa di Lisboa. Se può esistere una città in cui potersi sentire a casa, oltre a quella in cui siamo vissuti o abbiamo passato magari l'intera nostra vita senza mai allontanarcene, come accade per molti anziani, questa città è Lisboa.
E la canzone che la rappresenta, se possiamo associare una canzone a una città, è "Minh'alma" cantata da Mariza (http://www.youtube.com/watch?v=35tsdp5DmPc).
(Oh Soul!My Soul...
Tell me who I am
Oh Soul! My Soul...
Tell me where I'm bound
Lisbon, make love to me, that's where I'm bound
Running through the streets of the past
My fado is the future
But I vow
My love
That I will make love to my past
Without saying where I'm bound
Oh Soul! My Soul...
When I get away from myself
I am the sea
Of other lands, of other people who I've never seen
My song and my dream is not died
My love, My love, I'm the people
I'm farther from me).

Si prende posto sull'aereo, per allontanarsi dalla città, e nel momento in cui le turbine dei reattori accelerano per raggiungere la massima potenza e l'aereo inizia la sua folle corsa per decollare, come in un vortice ci si dispiegano davanti i vicoli della città, i miradouros da cui ammirare il Tejo e i tetti delle case, la magia dei chiostri, la luce sui muri, i gabbiani, gli elevadores, la gente; e per un istante percepiamo distintamente il suono di Lisboa, che è quello dolce del verso sussurrato in una stanza all'orecchio di chi amiamo, per un istante si percepisce il soffio di una farfalla che volteggia nella nostra mente e rappresenta il battito della città, per un istante un brivido ci percorre la schiena e prendiamo coscienza di averla posseduta e di tradirla distaccandoci da lei: gioia e dolore come nell'orgasmo quando finisce.
Solo considerandola dall'alto, da lontano, possiamo parlarne. Perché negl'istanti in cui la esperiamo in tutta la sua fulgida bellezza, siamo consapevoli che nonostante tutto ci sfugga, come la ninfa Clori sta per essere rapita da Zefiro nella Primavera del Botticelli, ma ancora si sottrae al suo possesso. Il vento raggiunge Lisboa e la sposa avvolgendola in un manto azzurro, piegandosi sopra i colli, insistendo nei vicoli nascosti creando un girotondo di foglie, ansimando nelle gonne delle donne per sparpagliare i loro profumi come petali sul selciato, fischiando nelle fessure dei vecchi abbaìni, srotolando e trascinando per i capelli le belle nuvole mutevoli.
Mangio un ultimo bolo de arroz, i granelli di zucchero mi riportano nei vicoli dell'Alfama, il lieve gusto amaro della superficie cotta mi conduce con la mente agli odori che a mezzogiorno aleggiano su per le scalinate del quartiere, un insieme di spezie e aromi di pesce alla brace, nel silenzio della pausa pranzo, nel sole allegro che spiove nelle piazzette sconosciute ai turisti, dove le donne portoghesi stendono il loro bucato e i bambini di ogni colore giocano a palla. Nel bolo de arroz ritrovo la luce dei chiostri, l'azzurro del cielo riflesso nelle pozzanghere, l'essenza della città, come Proust con la madeleine; l'aria dell'oceano mi travolge in un'ondata di freschezza: sono un gabbiano, volteggio sopra il castello di Sao Jorge fino alla torre di Belém, nelle cui feritoie il vento narra storie di terre lontane. Sono qui e sono altrove, la mia anima diventa mare, il mare m'invade e stempera i miei pensieri in stelle notturne riflesse sull'acqua. Lisboa mi è entrata nelle vene e mi scorre dentro ogni giorno che mi risveglio, con tutto il suo abbraccio di felicità. Ogni porto accoglie il viandante, in ogni città sul mare possiamo trovare la nostra felicità; ma a Lisboa ci aspetta l'altra parte di noi dalla quale siamo disgiunti.

Ballerina



Ballerina

indaffarata

fra nido e cielo

a nutrire

i tuoi piccoli,

vorrei avere

la tua leggerezza

per danzare nella vita

piuttosto che restare

inchiodata ai miei pensieri

sul letto

come Dio in croce.

giovedì 26 marzo 2009

Oltre lo specchio.




Attraverso la fenditura del silenzio scivola il fascio luminoso delle parole. Spina dolce che ferisce la carne e la fa sanguinare di lacrime, sei un pensiero dominante, che ha quasi vita propria come il quadro una volta dipinto: tu sei là, dietro lo specchio della mia mente; se allungo la mano per toccarti sfioro soltanto la superficie fredda che mi rinvia la tua immagine sovrapposta alla mia.

I miei occhi, scopro, sono diversi dal solito: più luminosi, più intensi, quasi umidi, pieni d'amore. E non posso neanche più nasconderlo: è come se gridassero ciò che non posso esprimere nel reale, come se un assurdo incantesimo mi avesse tolto la voce, e potessi solo cantare attraversi i versi questo amore profondo come il mare.

E' nei versi, che scendo libera in mare e ti respiro, senza bisogno d'indossare maschere o vestiti: sono me stessa, le mie mani tornano bianche, posso raggiungere la prateria di cimodocea e abbracciarti come l'Hippocampus resta attonito arrotolato al suo stelo. Soffio nelle canne d'organo delle spugne e questi versi prendono forma nell'azzurro:



Ebbra di te

quanto l'aria

dell'odoroso giacinto

cammino

con la lentezza gravida

di chi in grembo nasconde

l'amore.

Avvolgimi

nei tuoi petali azzurri

perché sopporti il freddo,

riposami

in cuore.



domenica 22 marzo 2009

I just can't find a place to be near you.




I'm never gonna cry again
I'm never gonna die again
I shed some tears for you
I shed more tears for you than the ocean


I didn't wanna let you know
I didn't wanna take your time
I didn't wanna bring you down
I didn't want to hang around you


So we're living in desperate times
Oh such an unfortunate time
I can't relate to you
I just can't find a place to be near you


Il video cui rimanda il link iniziale è già stato pubblicato sul sito di Facebook, ma ho ritenuto di ampliare la riflessione sul Blog.
L'amore non si racconta, si esperisce. Raccontarlo lo cristallizza, lo rende immobile in una sfera di vetro. Eppure le immagini e la musica del video narrano di un amore impossibile, estenuante, doloroso, forse proprio per il suo carattere ineluttabile, tanto più forte e inebriante.
Le immagini si aprono s'una conchiglia bagnata dalla risacca sulla spiaggia, la stessa che verrà suonata ripetutamente da uno dei tre uomini durante la storia e a conclusione, quando la donna ritorna al mare. Si delineano già i profili dei protagonisti: gli uomini si trovano sulla sabbia, attendono ad azioni assurde pur nella stabilità della terraferma; la donna emerge dal mare, in balìa delle onde.
La macchina da presa scivola via, si allontana verso il mare come se fosse un gabbiano, ma si tratta dell'inquadratura di un ubriaco che per un istante sembra capovolgere il mare, fino a raddrizzarsi sul pelo dell'acqua dove si sta raccogliendo un'ombra rossa...Dal mare emerge la figura di una donna, affiora in superficie: l'amore l'ha avvolta e sommersa letteralmente, nella misura in cui il desiderio è dolore (Schopenhauer) che penetra l'anima e la fa tremare.

Così risuonano i miei versi, essendo quella stessa donna:


Trafitta dalla tua lama

come una farfalla dallo spillo

cado esangue

sul fondo del mare.

Il mio corpo riposa

sulla vellutata sabbia

della tua pelle.


La donna (Annie Lennox) incrocia le braccia sul petto: il fondo del mare su cui stava adagiata è una silenziosa e muta urna d'acqua, la stessa descritta nei versi di Ungaretti:

'Stamani mi sono disteso/in un'urna d'acqua/e come una reliquia/ho riposato'. Per il medesimo motivo, l'amore rappresenta nascita e morte, il ciclo della vita che ritorna a ondate, onde di un orgasmo mai consumato nel reale.
E' solo nel raggiungere la riva che ha inizio il brano, in cui "piangere" è quasi sinonimo di "morire", mentre le lacrime sono l'oceano stesso.
Ma è davvero la terraferma, quella a cui approda la donna per poco strappata al suo silenzio d'acqua? Dalla sabbia affiora uno strano individuo che prende a scrivere le parole dell'innamorata, vale a dire il testo stesso della canzone. Una sorta di fool shakespeariano che le saltella goffamente accanto e intinge la penna da un altro losco individuo accovacciato sulla sabbia. Un uomo dalle sembianze di un sovrano senza regno prende a suonare il flauto traverso, il suo trono è collocato nell'acqua che freme ovunque, persino sulle sue scarpe.
Infine il sovrano conduce la donna a una tavola, dove i tre uomini persistono nelle loro assurde azioni, bruciano un giornale, sorseggiano serenamente da una tazza, indifferenti alla donna che canta il suo dolore e d'un tratto getta via il piatto che le è stato offerto, consapevole che viviamo in un tempo indefinito in cui non ci si può amare, un tempo in cui l'amore non trova luogo per accrescersi e maturare, ma si può solo sognare.
Il suo velo nero si trasforma in gabbiano per volare al di là dell'oceano, verso un orizzonte di speranza, un luogo in cui poter stare accanto all'amato. Un viaggio che conduca attraverso il labirinto di se stessi per trovare un'apertura sulla felicità pur sognando ancora, perché <la più bella storia d'amore non è forse quella impossibile a viversi, quella più pura e intangibile, nutrita di sogni?> (cit. Mario Levi, "La nostra più bella storia d'amore").


lunedì 9 marzo 2009

Discorso per "Lo sguardo imperturbabile" (Mostra dell'8 marzo 2009).


(Per la sezione delle tele a olio):

Dedico

a colui che posso amare

solo quando siamo lontani

questa magia,

tanto breve quanto eterna.


La vita è un libro bianco che la donna tenta faticosamente di riempire con immagini felici, trasformando i giorni pesanti in allegria e forza d’animo, carezze mancate e violenze sommesse in colori accesi densi di significato. Pagine di un coraggioso libro talvolta strappate impietosamente da uomini senza scrupoli, carnefici, spesso mariti o fidanzati.
Nella società attuale, la dolcezza di una donna, il suo amore, la sua piena dedizione per l’uomo che ama, per la famiglia, per il proprio lavoro, sono svilite e prosciugate dalla violenza fisica o psicologica, dall’ipocrisia, dall’isolamento in cui è costretta a vivere reclusa. Costantemente accusata, schernita, processata, la donna è sola fra le mura domestiche convinta di dover nascondere la propria vergogna: sono poche le donne che denunciano la propria sofferenza, e lo stato le tutela solo marginalmente.
Si chiamava Aassiya Zubair Hassan, madre di due bambini, e aveva appena chiesto il divorzio. E’ stata brutalmente uccisa dal marito e ritrovata senza vita nella sede della televisione che avevano fondato assieme.
Poi c’è Paween, attrice afgana oggi costretta ad indossare il burqua per nascondersi ai talebani, che per vietarle di recitare in quanto donna hanno ucciso il marito che la lasciava recitare: “Ho ucciso mio marito con il mio lavoro”, ripete con il volto scuro di dolore.
C’è la bellissima Rihanna, picchiata dal suo fidanzato, con il quale ha scelto di tornare.
C’è l’attrice Marie Trintignant, scomparsa a 41 anni per mano del suo compagno Bertrand Cantat, dei Noir Désir, che canta “il vento ci condurrà”.
Ci sono infinite altre donne strappate al loro stelo e lasciate sfiorire per la sola colpa d’aver accettato di sacrificarsi per l’uomo sbagliato, per quell’amore ideale a cui si erano votate e che ha tolto loro anche l’ultimo respiro.
“Ti do le mie mani, ti regalo il mio seno, sono tue le mie orecchie, ti do i miei occhi”, dice Pilar nell’atroce film “Ti do i miei occhi”. Eppure, una Fornarina con i lividi alle braccia e al volto non sarebbe meno bella, perché la bellezza di una donna la illumina dall’interno, la sua bellezza è la sua forza d’animo, e perché in fondo la donna, anche se trattata come oggetto che si offre allo sguardo senza veli, rimarrà sempre una soggettività che continuamente sfugge, che non potrà mai essere posseduta dal suo aggressore.
Se la scrittura, la pittura, l’arte in generale consentono all’animo di spezzare le catene che la società impone, allora auguro a tutte le donne di essere creative anche solo nel quotidiano, per potersi librare nel cielo della serenità, al di là di ogni convenzione o conformismo e sopra ogni pregiudizio; auguro loro di non vergognarsi della propria sofferenza, ma di uscire alla luce del mondo per scrivere un altro libro, un’altra vita.

domenica 15 febbraio 2009

Il sangue dell'artista è più dolce del miele.


Quando si finisce di leggere le "Lettere a Theo", con tristezza, perché si vorrebbe che non si esaurissero mai ma procedessero insieme a noi, prendendo parte alla nostra stessa vita, ci si ritrova attoniti, stupidi, sbigottiti, stanchi, con le guance infiammate come dopo un lungo pianto, insicuri, malfermi nelle proprie convinzioni, ma in fondo con una sola certezza: l'Arte è il prodotto di un furore, intendendo come tale una forza che guida la ragione al di fuori di sé, vale a dire verso il soggetto stesso da rappresentare. E' una concentrazione di forze che confluisce in un cielo, in un filo d'erba (quello tanto apprezzato da VG nei giapponesi), in un riflesso, in un colore come materia espressiva, anima stessa del pensiero trasposto sulla tela.


Comprendiamo come L'Arte, quella sincera e intelligente, che non mira al successo ma solo alla propria purezza d'esistere, come l'aria fresca all'alba, come l'acqua di una sorgente, limpida e originaria, l'Arte possa davvero consolare e salvare gli animi, e che non si tratta di idealismo, ma di realtà concreta: carne e sangue dell'artista diventano carne e sangue di colori, di note, di parole.


"I pittori", scrive VG alla metà di luglio del 1888, "quando sono morti e sepolti parlano con le loro opere a una generazione successiva o a diverse generazioni successive. [...] La vista delle stelle mi fa sempre sognare, come pure mi fanno pensare i puntini neri che rappresentano sulle carte geografiche città e villaggi. Perché, mi dico, i punti luminosi del firmamento ci dovrebbero essere meno accessibili dei punti neri della carta di Francia? Se prendiamo il treno per andare a Tarascon[...], possiamo prendere la morte per andare in una stella".


VG davvero esiste attraverso le sue opere tramandate a noi, avvertiamo il suo battito sfogliando le pagine di diario, così come nel fondo di una sinfonia di Brahms, dietro le dolcissime note di un violino disperato percepiamo il respiro dell'autore, il suo amore perverso per le cose, oppure attraverso le parole di un poeta riusciamo a sfiorare le stelle senza muoverci dalla nostra posizione terrestre, tenendogli soltanto la mano.


Il valore di un'opera non si misura a denaro, nonostante il frutto dell'artista debba necessariamente essere sottoposto al giudizio del pubblico e dunque quotato come merce; il valore si misura senza strumenti di precisione, eppure la percezione che ne abbiamo è estremamente precisa: è il nostro sentimento, unitamente alla nostra esperienza e al vissuto stratificato in noi, che ci concede l'opportunità di percepire l'opera, il simbolo che rappresenta e la sua traduzione in quel linguaggio intimo e segreto che scorre nel nelle nostre vene e dà forma ai sogni.


"Scoprirò allora che non soltanto le belle arti, ma che anche il resto non erano che sogni, che noi stessi non eravamo nulla del tutto. Ma se siamo così leggeri, tanto meglio per noi, perché niente si oppone allora a una possibilità illimitata di esistenza futura" (6 agosto 1888).

La leggerezza e la trasparenza d'animo conducono l'artista in uno stato di grazia che lo eleva nel cielo dell'illimitato, dove la realtà concreta confluita nella tela si riflette incessante nella realtà suprema eternizzata attraverso il semplice gesto dell'autore che l'ha ri-creata. Un processo di solidificazione della luce in colore, mediante il quale il mormorio di un ruscello può essere ancora percepito attraverso i nostri sensi, in questo caso l'occhio, che vede il ruscello divenuto grumo di azzurro e celeste e bianco di zinco, proprio come accade nella sinestesia.

"Anche un bambino nella culla, se lo si osserva con calma, ha l'infinito negli occhi" (ibid.).

L'infinito, nel caso delle lettere e dei quadri di VG, riecheggia nella nostra vita con intensità e vitalità immutate, come nell'istante in cui sono venute alla luce parole e colori.

Non andrà smarrito, ma si riverserà, sia pure con voce debole o minor intensità di luce, in altre mescolanze di tonalità, altre parole.


sabato 31 gennaio 2009

Quel cagnaccio di Van Gogh.


La luce, in ogni materiale, modifica le immagini rendendole di volta in volta diverse. In Raffaello, la luce impregna i personaggi infondendogli il "respiro", l'anima, potremmo dire, donandogli la forza di perpetuarsi nei secoli con la stessa intensità in cui nacque l'opera d'arte. Raffaello apprese la lezione da quel tale che era Leonardo, che s'ingegnò fino alla sua morte a rendere ineffabile il sorriso della Monna Lisa.
Accade così, per le tele, e soprattutto per i disegni, dove le ombreggiature sono alla base dell'efficacia del soggetto. Quando ci si risveglia con la felicità di aver intuito (non dico còlto) il senso dell'arte, è un passo avanti verso la sua conoscenza che in continuo ci sfugge.
Così Van Gogh scrive in una delle sue lettere a Theo, da Neunen, nel gennaio del 1884:

"Voglio soltanto dirti che fino a tarda età si può avere, e certamente come artisti non meno che come esseri umani - fino a tarda età si può avere una certa maniera di fare come pure di vedere le cose, rigida, impalata, diciamo ferrea, e anche di lavorare - ma ciò malgrado si può raggiungere, negli anni più tardi, una visione più dolce, più intelligente, più ragionevole e infine umana".

Ebbene, è questa visione più dolce, più intelligente, più ragionevole e umana, che cerchiamo con moto estenuante e verso cui tendere fino alla fine dei nostri giorni.
Attraverso l'esercizio della mano, e quindi dello spirito che agisce sul mondo, ma anche per mezzo del mondo che ci sostiene e ci solleva nel cielo delle sue sofferenze o delle sue piccole gioie. Nutrendoci di libri, di cinema, di mostre d'arte, ma anche di storie sconosciute, di povera gente che non trova spazio e viene gettata nella fossa comune della dimenticanza.
Perché l'essere umano è un prodotto contingente frutto d'incontri casuali, a partire da nostra madre e nostro padre che hanno dato inizio alla nostra vita fino agli amici di cui ci circondiamo, all'incontro fortuito con grandi libri da leggere nel chiuso di una stanza o s'un treno, ai quadri che mai avremmo immaginato di poter vedere con i nostri occhi, alla musica che ci avvolge come l'incenso in una chiesa, all'aria stessa che respiriamo, così dolcemente sensuale.
Come ne La doppia vita di Veronica, dove la protagonista lancia la biglia che colpisce il soffitto di uno squallido corridoio e si lascia piovere sul viso la polvere bianca dell'intonaco. Polvere di stelle, luce che carezza le labbra, felicità d'esistere sia pur nella violenza breve di una vita strappata. Similmente, la margherita Dafne di Marisa Madieri verrà "còlta" dall'esistenza, e lasciata appassire nell'erba senza motivo, per il capriccio di un gruppo di ragazzi che la strapperanno con uno schianto al suo sogno di fiore, in una sorta di violenza carnale: "uno strappo, un dolore intenso proprio al centro del creato". Eppure, se la margherita non fosse venuta al mondo, "se avesse continuato a dormire e a sognare, non avrebbe certo sofferto mai, ma non avrebbe neppure avuto la gioia di vedere la bellezza delle cose reali, né conosciuto l'amore, con tutti i suoi rischi".
E' l'arrischiare qualcosa, che consente al nostro essere un avanzare lungo il sentiero della conoscenza. Vivere nel presuntuoso folle progetto di seguire le orme di uomini e donne di cultura, restando umili di fronte al loro insegnamento, sforzandosi di sdebitarsi con il mondo che ci ha offerto un suo luogo in cui lavorare con fervore e costanza. Per essere profondamente altruisti come è scritto nel nostro codice genetico, per alleviare il dolore di chi non ha forza di sollevarsi dalla propria indigenza.
Sono ancora le parole di Van Gogh che ci piace ricordare: " Il mondo mi riguarda solo in quanto sento un certo debito e un senso del dovere nei suoi confronti, perché ho calcato per trent'anni questa terra e, per gratitudine, voglio lasciare di me un qualche ricordo sotto forma di disegni o dipinti - non eseguiti per compiacere un certo gusto in fatto d'arte, ma per esprimere un sincero sentimento umano. Di modo che questo lavoro è la mia meta" (L'Aia, primi di agosto del 1883).

L'arte (in senso lato, sotto tutte le sue forme) è per prima cosa sincera, ingenua, libera. E' una giornata di primavera, ricca di petali e veli, è il bacio di un amante che promette, non importa se manterrà, perché l'istante stesso in cui proferisce parola si prolunga nel tempo, facendo risuonare il suo desiderio di bocca in bocca sulle altre labbra.
L'arte è il risveglio della coscienza, la consapevolezza dei mutamenti che ci attraversano l'anima come tremolii d'onde nel mare, la volontà di migliorare qualcosa, dunque è promessa di pace e abbraccio in cui trovare conforto come il Cristo fra le braccia della madre nella famosa Pietà che il pittore olandese dipinse ritraendo se stesso nel volto di Gesù.

Bisogna attraversare il mondo senza conformismi, tentando di non essere mediocri, diventando comicamente e seriamente ciò che Van Gogh dice di sé: "[Papà e mamma] hanno lo stesso timore di accogliermi in casa che avrebbero se si trattasse di un grosso cagnaccio. [...] Mauve una volta mi disse: 'Troverai te stesso se ti metterai a dipingere, se penetrerai nell'arte più profondamente di quanto tu non abbia fatto finora'. [...]. Ho trovato me stesso - sono quel cane".



mercoledì 21 gennaio 2009

Se questa è una bambina

Non so chi fui; perì di noi gran parte...





E' finita, Tsahal si ritira, si va a casa: ma quale casa? Mentre Obama giura solennemente davanti al popolo americano e la first lady indossa un delicato abito presidenziale "in lana svizzera e filo di seta francese per il ricamo", mentre il grande Bernard Henri-Lévy scrive dalla sua comoda poltrona in pelle: "posso sbagliarmi, ma le poche, le pochissime cose che vedo [...] indicano una città frastornata, che si trova in trappola, terrorizzata, ma certamente non una città rasa al suolo, come poterono esserlo Grozny o certi quartieri di Sarajevo", Vittorio Arrigoni scrive, dal suo coraggiosissimo Blog: "Si racconta di un anziano signore che uscito di casa per procurarsi del cibo durante una delle rare tregue mattutine, non sia stato più in grado di trovare la via del ritorno. I bombardamenti hanno modificato radicalmente la geografia di Gaza, alterandone insieme il tessuto sociale. [...] Qualora alla fine di questa massiccia offensiva genocida si effettuasse una fotografia satellitare di Gaza city, credo sarebbe arduo convincere qualcuno che si tratta della stessa città fotografata venti giorni prima ".

E' finita, i carri armati si ritirano, schiacciando e sputacchiando ogni carcassa o maceria che incontrano sul loro cammino. Come nel libro di Malaparte, "La pelle".
Nessuna casa, per i sopravvissuti di Gaza. Sfoglio le pagine di diario di Guerrilla radio, per scoprire le atrocità commesse da Tsahal, edulcorate e falsate dai media. D'un tratto mi ritrovo davanti a una foto che sulle prime non capisco. Passa qualche secondo, l'orrore mi trafigge il cervello. No, non mi sbaglio. E' la foto di una bambina, la bocca aperta come se stesse dormendo il sonno profondo dei bambini stanchi, schizzi di sangue le incrostano il viso, un occhio appare tumefatto ma tutto sommato normale. I bei capelli castani sono arruffati, mescolati alla polvere dei calcinacci. Potrebbe essere una morte dignitosa, se qualcosa di dignitoso può esserci nella morte di una bimba strappata alla sua vita dalla lurida guerra. Mi torna in mente la disgustosa frase del generale Broulard in "Orizzonti di gloria": "I suoi uomini sono morti bene". Nessuna morte è traducibile, per questo la foto ha qualcosa di osceno. Bisogna allora tacere? Scegliere di mostrare, senza parlarne, oppure tentare di tradurne le smisurate atrocità, senza mostrare?
Della bambina, non rimane più niente. E' solo una testa fra le macerie, decapitata. Resto inebetita a guardare, incapace di una qualsiasi reazione. E' come ricevere un pugno da chi ti fidi: non te l'aspetti, ti ritrovi per qualche secondo stordito, attonito.
Poi, improvviso come un tuono a ciel sereno, scoppio a piangere. Un pianto di rabbia, di costernazione, smarrimento.
Non so più chi sono. Bestia o creatura umana, fiore nella pioggia o nuda roccia, mestruo doloroso che porta vita o proiettile che trapassa, carezza o filo spinato che ferisce, asfalto di strada anonima oppure vuoto in cui precipitare risucchiata.
Non so più chi sono.
Scorporare l'essere umano, frammentarlo, levargli anche quel residuo di dignità che la morte conserva fino a dissacrarlo, vuol dire annientare un popolo, come è stato fatto con gli ebrei spogliandoli dei vestiti e sottoponendoli alle "docce" di acido cianidrico. I nipoti di quegli stessi ebrei che sorridono nello sfondare col tank la saracinesca di un negozio di alimentari per uscirne carichi di merce, oggi stanno uccidendo e violentando l'infanzia. L'utilizzo di armi al fosforo bianco comporta un massacro ben noto all'esercito, che ne è pienamente consapevole.
Non condanno il popolo israeliano: condanno il governo che, nel delicato periodo delle elezioni imminenti, ricerca consensi soprattutto fra quanti si ritrovano a vivere nella ristretta fascia intorno a Tel-Aviv, al riparo dai razzi di Hamas.
Non sono una giornalista, non sono tenuta a limitarmi al dovere di cronaca, non rischio la vita come Arrigoni, ritenuto filo-Hamas. Posso concedermi il lusso di esprimere le mie idee in una società dove le idee, anche se (o forse proprio per questo) generatrici di ottimismo e speranza, sono considerate armi da reprimere. In Italia, in questi giorni, furoreggia la polemica contro Santoro accusato di faziosità per Gaza. In Nepal, dieci giorni fa è stata uccisa la ventiquattrenne giornalista Uma Singh, che si batteva per la difesa dei diritti delle donne. Era esile, Uma, il viso sincero di bambina indifesa. Lottava per portare alla luce la verità, troppo spesso cancellata o repressa dalle dittature. Pochi giorni prima, l'8 gennaio, veniva ucciso in Sri-Lanka Lasantha Manilal Wickramatunga, direttore del quotidiano Sunday Leader, per aver aspramente criticato il governo esecutivo guidato da Rajapaksa. Cronaca di una morte annunciata, la sua, prevedendo la propria fine nel suo ultimo articolo. E il 19 gennaio, pochi giorni fa, è stata assassinata in pieno centro a Mosca Anastasia Baburova, erede della Politkovskaya.
Brindiamo alla morte della libertà di stampa. Viva la censura, abbasso le idee, a morte gli idealisti e tutti coloro che si battono per la libertà d'espressione sotto le sue infinite forme. Mettiamo al rogo i pittori insieme alle loro opere, in un "divino falò delle vanità"; mettiamo al rogo i poeti alla ricerca della Parola, al rogo gli scienziati che intendono svelare il mistero dell'universo, al rogo ogni formula, ogni sorriso, ogni mano tesa, ogni bimba che piange, ogni fiore, insetto, foglia, giocattolo, ogni essere inerme che attraverso il suo microscopico contributo o la sua semplice presenza possa in qualche modo favorire la progressione della civiltà.
Quella bambina, quel che resta della bambina, ha ancora bisogno di noi. Ha bisogno di non essere dimenticata, di vivere dentro di noi. Noi che, attraverso il cannibalismo sociale sempre più diffuso, abbiamo fagocitato la sua storia e la sua sofferenza e andiamo avanti per la nostra strada, forse un po' meno indifferenti. Inglobati a nostra volta da Internet, digeriti e masticati dai Blog, in un interminabile ruminare, riflessi in uno specchio riflettente che riproduce all'infinito altre storie.

giovedì 15 gennaio 2009

La Terra Promessa.

La frase "Restiamo umani" conclude ogni reportage di Vittorio Arrigoni, http://guerrillaradio.iobloggo.com/, 33 anni, pacifista italiano che ha scelto di non abbandonare Gaza ma, al contrario, di viverci, per quanto possibile. "Restiamo umani" implica il rischio di non riuscire nel tentativo, cioè di divenire dis-umani, inghiottiti dal caos della follia che accerchia l'essere e lo rende fragile di fronte alle atrocità commesse in guerra, vulnerabile dinnanzi all'apparente indirezione di senso dell'umanità. Van Gogh è stato uno fra questi. Sembra stridente, dissacrante, voler parlare d'arte in questi giorni. Eppure l'arte che viene secreta dall'uomo può ancora, forse, con la sua ingenua pretesa di eguguagliare gli esseri, fornire un senso a ciò che finora senso non ha avuto. La guerra "non è una lezione universitaria", afferma B. Netanyahu, e all'ospedale di Rafah arrivano "uomini, giovani, il cervello che cola dalla testa" (L. Cremonesi).
Israele ha colpito persino i depositi inviolabili dell'Onu, che di inviolabile non avevano più nulla, dal momento che una stessa scuola è stata presa a bersaglio pochi giorni fa. Due cannonate sono cadute sull'ospedale Al Quds della Croce Rossa. Una madre palestinese viene portata a braccia da un uomo e una bambina, presumibilmente marito e figlia. E' avvolta da un lenzuolo bianco vistosamente macchiato di sangue vivo, lo sgomento negli occhi, le mani chiare a trattenere il lenzuolo e la disperazione. Basta. Basta così. Non c'è più speranza, sembra, Israele sta mietendo più vittime possibili prima dell'insediamento di Obama. Basta, sangue. Non abbiamo più scorte di sopportazione. Non sappiamo più incassare senza reagire. Stiamo diventando dis-umani, stiamo scivolando nel gioco perverso di Hamas. In Olanda, dove Van Gogh ha compiuto il suo percorso (felice, infelice) si è gridato: "Hamas, Hamas, gli ebrei nelle camere a gas!". Millecentotentatré morti. Fino ad ora, 16 gennaio, ore 19:11. Un sedicenne è stato ucciso ad Hebron, durante una manifestazione.
Hamas, ancora Hamas. Gli ebrei, siamo noi. Siamo noi che giudichiamo ciò che in fondo noi stessi avremmo fatto come nazione. Gli ebrei sono tutti i popoli costretti a reagire, a torto o a ragione, ma in fondo costretti. Ogni guerra è una costrizione.
Hamas, Hamas per sempre. Nascere durante un conflitto che si tramanda ormai da generazioni, non può che generare altro odio. Ogni guerra implica errori tattici di chi governa, successi machiavellici, sconfitte clamorose, sbandamenti nell'opinione pubblica, fratture nelle masse, e ancora odi, odi profondi, cicatrici inguaribili, che nessuno potrà mai sanare. Abbiamo superato una linea di confine. La linea che separa la ragione dalla follia, l'odio dall'amore, la pace dalla violenza, la vita dalla morte. Abbiamo superato la linea sottile dietro la quale avremmo potuto vedere nitidamente gli eventi, ormai sfocati in un alone d'indeterminatezza. Un sangue lava l'altro, se Israele sbaglia deve pagare con altro sangue, o con l'embargo, affinché si renda conto degli errori commessi. E dopo? Come si risolverà l'eterno conflitto fra sionisti e islamici? Letteralmente, il significato di "Gerusalemme" indica il "Monte della Pace". Potrà mai esserci una Pace, un'unione, una convivenza senza rancori? Esiste un muro, fra Gerusalemme Est (palestinese) e Gerusalemmme ovest (israeliana). Come esisteva a Berlino, divisa fra Berlino Est e Berlino Ovest, e come ancora esiste nella nostra placida italianissima sconosciuta Gorizia, ancora divisa fra Gorizia e Nova Gorìza, due nazioni unite da un unico nome: di fatto si tratta di città diverse, nonostante siano in parte scomparsi i gabbiotti dei doganieri.
Bibbia contro Corano. E l'infanzia tradita, l'infanzia calpestata, l'infanzia violentata, l'infanzia uccisa. I bambini dei campi profughi, finite le ore di studio, marciano con il fucile in spalla. Apprendono a combattere. Un muro. Un muro innalzato fra i popoli. Un muro da abbattere. La tragedia deve finire. L'infanzia ha diritto d'esistere. Non per marciare contro un futuro nemico, ma per andare incontro al proprio destino umano, perché non diventi un destino disumano.
Ieri ho potuto guardare negli occhi Van Gogh, in uno dei tanti autoritratti. Trovarsi fisicamente davanti alla sua immagine pittorica non ha nulla da spartire con l'oggettività reale del ritratto stampato, e tuttavia offre una verità al quadrato: la densità materica dei colori brillanti ci conduce in presenza di Vincent, consentendoci d'ascoltare il mormorio dell'umanità attraverso la violenza del suo sguardo spietato, portandoci fra gli ulivi squassati dal vento che in fondo assurgono a simbolo dell'umanità ferita e della sofferenza che ciascuna coscienza vigile implica, in quanto la conoscenza è già sofferenza. Van Gogh, che dipingeva spesso su carta perché non aveva denaro per usare la tela, Van Gogh, al quale la vita ha donato un successo postumo e beffardo, così scrive, in merito al suo lavoro: "Quanto al valore in denaro del mio lavoro, non oso dir altro se non che mi meraviglierei molto se col tempo il mio lavoro non dovesse diventare altrettanto vendibile quanto quello degli altri. Naturalmente non posso sapere se questo si verificherà ora o più avanti, ma ritengo che la via più sicura, che non può fallire, è di lavorare dalla natura con fedeltà ed energia. Prima o poi il sentimento e l'amore della natura dovranno provocare una reazione in persone che si interessino d'arte. E' dovere del pittore essere completamente preso dalla natura e usare tutta la sua intelligenza nel suo lavoro per esprimere il sentimento, di modo che la sua opera possa divenire intelliggibile agli altri".
Gli ulivi rappresentavano la sua tragedia interiore, la sua lucida tagliente visione del mondo. Una collina che resta ancora lontana al cammino dell'umanità che le va incontro, ma dove un giorno gli ulivi potranno significare sincerità, apertura, speranza, e infine, ciò che gli ulivi stessi hanno da sempre simboleggiato, la cui parola, a esprimerla nel nostro tempo, suonerebbe come vuota retorica.

sabato 10 gennaio 2009

E' il mio cuore, il paese più straziato.

Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro



Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto


Ma nel cuore
nessuna croce manca


E' il mio cuore
il paese più straziato

(G. Ungaretti, San Martino del Carso, 27 agosto 1916).



Brandelli. Brandelli dappertutto. E le gambe dei soldati, certe gambe attorcigliate su se stesse, arrotolate, come quelle dei fantocci. Quando non sono state strappate via dalla deflagrazione. La bocca aperta, gli occhi sbarrati. Sono i soldati di Hamas. Terroristi. Quelli che stanno per divenire eroi agli occhi dell'opinione pubblica. A Roma il sindacato Flaica club ha proposto di boicottare i negozi ebrei; nel quartiere residenziale intorno a piazza Bologna sono comparse svastiche e scritte antisemite. A Milano e in altre città scivolano in corteo bandiere per la pace, mentre si bruciano quelle israeliane. In occidente, la pace coincide con altra violenza. Come si può inneggiare alla pace, mentre si brucia la bandiera di un altro paese? Non sono stati gli italiani, si dirà, appartengono alla comunità palestinese. Noi non c'entriamo. Ma quanti italiani stanno dalla parte dello Stato ebrico, quanti conoscono davvero la storia di questi due popoli? Chi è l'aggressore, e chi l'aggredito? Israele, ne sono convinti i pacifisti che bruciano bandiere e imbrattano saracinesche, è il colpevole. In fondo, noi tutti desideriamo una pace. La pace è benessere, è serenità, eguaglianza. Nell'ingenuità del pensiero occidentale, Israele vuole Gaza, perché Israele è filo-americana. E' dura, pensare questa guerra con gli occhi di un odiato israeliano. E' molto meno faticoso vedere la guerra con gli occhi di chi la guerra può solo subirla, senza poterle sfuggire o controbattere: con gli occhi degli innocenti di cui si sta facendo strage. Semplice: io sto con i più deboli. Se il conflitto potesse ridursi a una contesa fra prepotenza e debolezza, sfocerebbe nella naturale risoluzione dell'annessione di Gaza e in un accordo duraturo.

Michael Oren, docente universitario richiamato in servizio come riservista, afferma: "Per Hamas è molto semplice vincere, non deve fare niente, deve solo riuscire a mandare qualche razzo dall'altra parte, e più palestinesi muoiono più la loro popolarità aumenta. [...] Hamas è nello spirito della gente". Ormai Hamas sta prendendo piede (paradossalmente) anche nell'ideologia pacifista: ciò che appare irrazionale è voler a tutti i costi conciliare il terrore con la placida tranquillità degli europei, inglobare Gaza e assimilarla con tutte le sue contraddizioni, rifiutandosi di capire che nella Striscia aleggia lo spettro iraniano e i bambini hanno perso l'innocenza per guardare la morte negli occhi, lanciano pietre contro gli israeliani e muoiono senza potersi chiedere perché.
Ma è poi lecito che un bambino debba comprendere il senso del proprio sacrificio, quando in fondo non c'è senso che regga ed egli stesso dovrebbe ancora riposare nel candore dell'infanzia? Penso a Edmund di "Germania anno zero", che cercherà la salvezza gettandosi nel vuoto, penso a Picasso: Gaza è una seconda Guernica. A Zeitun, giovedì, sono stati trovati quattro bambini intorno alla mamma morta da giorni. Ahmad Talal al Samuni ha ventitrè anni e insegna religione. Ecco la sua testimonianza:"Uccidono la moglie di mio fratello, Maha, vent'anni, incinta di due mesi. Altre esplosioni. C'è un fumo nero, denso. Non riesco a vedere le mie dita. Però vedo un corpa senza testa, lo riconosco dai vestiti: è mia madre. Si chiamava Rahmah.[...] Mia nipotina Sala aveva cinque anni e un'enorme ferita alla testa. Ha roteato gli occhi, ha detto Baba!Baba! Mi è morta davanti".(dall'articolo di Francesco Battistini).
Un'inaccettabile strage di innocenti costretti già durante il primo decennio di vita ad apprendere la strategia dell'odio e della vendetta, che da adulti li condurrà alle terribili scelte di diventare kamikaze o seguaci del terrorismo islamico. Perché i bambini hanno una sensibilità infinitamente sviluppata rispetto agli adulti, sono portati a vedere il mondo con gli occhi del poeta, amplificando il dolore provato e distorcendolo come fa Van Gogh con gli ulivi contorti. L'unica arma in loro possesso, per poterlo alleviare, è il reagire d'istinto. Impermeabili alle ideologie ma facilmente plasmabili dagli adulti, rispondono con le pietre all'invasione israeliana, imitando gli uomini palestinesi. Nel tentativo di vendicare la morte di fratelli e sorelle e accettare, anche senza risposta, la propria devastazione interiore. Incapaci d'interpretare i versi di un Ungaretti, già li sanno, già li comprendono nella propria minuscola ingarbugliata coscienza.

giovedì 8 gennaio 2009

Le parole che (non) salveranno il mondo



Non sono le parole, che salvano il mondo. Non è la pace, che ucciderà la guerra. Non è la foto di una bambina coperta dalle macerie, con un'unica mano che spunta come a invocare un impossibile aiuto, non è la sua foto comparsa su tutti i giornali, non sono i video trasmessi da Blob, sui massacri di Gaza, a salvare noi occidentali dalla placida quiete della nostra ottusa inazione. Niente, potrà giustificare il nostro silenzio-assenso, niente potrà assolverci dalla nostra inettitudine e frivolezza, nessuna lacrima versata, nessun pugno contro il muro, nessuna croce, nessun grido, nessun amore, niente e nessuno ci potrà salvare dalla nostra morte morale. Siamo morti che camminano.

In tv danno le "estrazioni del lotto". Una voce fuori campo scandisce con seria lentezza la combinazione vincente, facendo rabbrividire i giocatori.

A Milano e Torino c'è una situazione di emergenza: è finito il sale per sciogliere la neve. Il sale, quello che si trova nell'infinito mare, non c'è più. Giornalisti e popolazione lamentano la grave emergenza.

La gente, qui da noi occidentali, ha ancora il coraggio di girare in pelliccia. In fondo, il freddo è intenso. Si muovono anche loro con serietà, avanzano con lentezza, come la voce per le estrazioni del lotto. Non si sentono animali sociali. Nessuno di loro si sente un animale sociale. Vanno dal parrucchiere con una certa frequenza, snobbano i colleghi che ritengono inferiori, abitano l'agiato mondo che si sono allestiti come uccelli variopinti dentro una splendida voliera.

A Gaza City, soltanto, si muore. A Gaza nessuno ha più una casa, la gente deve correre da un quartiere all'altro per cercare un rifugio per la notte. La notte, terribile, senza luce, forse qualche stella, ma uscire significa incontrare la morte, che insegue instancabile la popolazione in trappola.

Un viaggio al temine della notte interminabile, un'interminabile sapore di sangue e carne bruciata che ti penetra nelle narici e non ti si scolla più di dosso. Sono in un vicolo cieco. Si spara anche contro le scuole dell'ONU, ritenute ricovero di armi. L'edificio esplode, il tetto crolla, i muri di cemento crollano, ti schiacciano, è un attimo: non ci sei più.

Non ci sei più. Non puoi più vedere niente, né assaporare il gusto libero dell'acqua, né accarezzare tuo figlio se sei padre, né stringere la mano della mamma se sei bambino, né ridere, né arrabbiarti, né masticare, né evacuare, né tantomeno pensare.

Non sei più, soltanto. Non sai che da noi occidentali, un certo tipo di gente, gira in pelliccia, e snobba chi non può soffire, e arriccia il naso se riceve un torto, e giura di farla pagare a chi quel torto giustamente o ingiustamente l'ha commesso.

Non t'interesserebbe nemmeno. Tu hai lottato per vivere, hai cercato un tetto in cui passare la notte, hai sofferto il freddo, la fame. Non concepiresti nemmeno un certo stile di vita. Ti basterebbe poter dormire ancora, ti basterebbe poter avere un sorso d'acqua, o stringere la mano di chi ti era caro, o semplicemente poter formulare ancora un pensiero. Solo un pensiero, uno ancora. Il tempo non torna sui suoi passi. Tu sei morto, e niente ti riporterà fra noi.

Fra noi che ci riteniamo animali sociali. Fra noi che proseguiamo la nostra vita speciale, perché, ne siamo certi, tutti gli io sono sono speciali. Fra noi che sbadigliamo al dolce risveglio, intingiamo i biscotti nel thè o nel latte, ci vestiamo, ci pettiniamo, usciamo di casa per andare al lavoro, idioti inconsapevoli, bravi dementi pieni del nostro sapere inutile.

No, non è proprio così. C'è qualcuno che il mondo lo salva, non resta a guardare. C'è qualcuno che rischia la vita, che decide di partire, di agire, di cambiare lo cose. Magari è il guidatore del camion dell'ONU, che porta viveri e medicine, centrato da un carro armato israeliano.

E' morto con onore, si dirà. No, è morto con orrore, l'orrore che aveva negli occhi per un brevissimo istante, per salvare il mondo come una goccia nel mare. Una goccia che insieme alle altre versate dagli innocenti sta dilagando in tutte le case occidentali, sporcando i bei tappeti ricordo di viaggi, avvolgendo le pellicce, arruffando i capelli appena acconciati, beffandosi dei poveri benpensanti ignari prigionieri del proprio solipsismo.

lunedì 5 gennaio 2009

L'uomo come animale sociale


Così, capita talvolta che non si abbia niente da dire, abbrutiti dalle false speranze o dal pessimismo che ci riempie le tasche, mentre i nostri pensieri ritornano s'un argomento che ci è caro. Riflettevo s'un articolo letto qualche giorno fa, scritto da Edoardo Boncinelli, che fa riferimento a "Nati per credere". Secondo questo testo, di tre autori diversi, l'essere umano, indipendentemente dalla sua religione, si comporta come un cucciolo bisognoso di cure, che agisce nella (falsa/vera) credenza che qualcuno "pensi a noi e non ci ignori". Falsa e vera al contempo: posto che Dio non esista (dunque falsa), in ogni caso c'è l'umanità intera a raccogliere il nostro messaggio (e ciò rende vera la convinzione che ci permea).
Da questo consegue che "la fede in un essere superiore che ci segue dall'alto e può giudicarci favorisca il comportamento altruistico, o almeno non troppo egoistico, necessario per lo sviluppo di una vita sociale". Quando, o meglio, fino a che punto una vita, e l'agire che la determina, può definirsi sociale?
Può forse la guerra essere considerata un'azione sociale, cioè utile al bene di una comunità? La risposta è affermativa nel caso questa si consideri mezzo per ristabilire l'ordine delle cose, dunque per porre fine all'offesa ricevuta da un paese. Ma qui intervengono questioni religiose e culturali che affondano le loro radici nell'assetto geopolitico del paese colpito.
In sostanza, proseguendo il discorso abbandonato di Tutte le strade del mondo, Israele ha scelto di colpire Gaza affinché cessassero le azioni terroristiche perpretrate da Hamas. Si è però accusato lo stato d'Israele di sproporzione, di usare una forza eccessivamente superiore a quella palestinese. Che lo stato ebraico sia indubbiamente più forte, e che sia la causa della strage che si sta verificando nella Striscia, è indiscutibile. Certo la guerra non ha pietà per nessuno, e appare senza senso contare i morti o stilare percentuali: un morto non vale meno di mille, e la sofferenza di un bambino ferito resta sofferenza incolmabile, terribilmente disumana.
Hamas, in questo, non ha niente di altruistico: usa scudi umani, si avvale della squallida strategia del terrore. In questo senso, non mira al benessere della comunità palestinese, ma si caratterizza per un'ideologia distruttiva (autodistruttiva) che si avvicina a quella della Germania nazista: cancellare gli ebrei anche a costo di perdere.
A questo punto viene da chiedersi: quale fede può nutrire Hamas? Ciò che muove i terroristi palestinesi sembra essere unicamente l'odio, dunque si tratta di una malafede (consapevole). In nome dell'indipendenza palestinese, mettendo in primo piano la causa civile (lo stesso termine hamas significa entusiasmo, zelo: una specie di Forza Italia, mi riferisco al termine, non alla consistenza politica), mascherano il loro rancore con quanto di positivo possa trasmettere il nome dell'organizzazione terroristica.
Il secondo punto su cui si sofferma l'articolo, il cui credo sembra favorire la perpetuazione della specie umana e la persistenza nella memoria dei nostri antenati, è rappresentato dalla "fede in qualche forma di sopravvivenza del corpo o di una parte di essa [che] aiuti a superare il terrore della fine, fondamentale per noi che siamo gli unici animali a sapere che moriremo".
L'essere gli unici animali consapevoli della morte ci rende infelici e limitati: quanto potrebbe rivelarsi utile percepire la morte attraverso i sentimenti di un animale? In fondo gli elefanti ne sono (in parte?) consapevoli, dal momento che tornano sul luogo dove è morto un proprio antenato e strusciano la loro proboscide contro i suoi resti.
Raccogliere ricordi affinché non vengano inghiottiti dall'oblio è il senso che spinge il protagonista ebreo Jonathan Safran Foer a ripercorrere i luoghi in cui è vissuto suo nonno, nel film Ogni cosa è illuminata.

« I ricordi servono per non dimenticare, ciò che viene seppellito non è perché noi lo troviamo ma perché lui venga trovato. »

A Gaza, molto è stato seppellito e molto sarà dimenticato: il tempo della pace scivola come olio nel pozzo nero del passato. Ma come per la shoah Primo Levi ammonisce noi che viviamo sicuri nelle nostre tiepide case perché non dimentichiamo, così possiamo proseguire il nostro cammino come animali sociali soltanto guardando il mondo con gli occhi di chi non potrà mai dimenticare.
Non per nutrire il rancore latente mai sopito dalle interminabili tregue, ma per ristabilire un tempo duraturo di pace.

sabato 3 gennaio 2009

Tutte le strade del mondo



Il mare non bagna Gaza. Ci pensa il sangue, a bagnarla. Mentre in tutto il mondo si festeggiava l'arrivo dell'anno nuovo, con variopinti fuochi d'artificio che sbocciavano come rose nel cielo stellato, su Gaza s'aprivano silenziosi fiori sopra le case, esplosioni filmate dagli aerei israeliani e cliccate su Youtube. Il mare blu s'estende oltre la striscia di Gaza. Il vento respira forte, oppresso da una stanchezza profonda.
"L'attacco a Gaza non è contro Hamas, è contro tutti i palestinesi", scrive Amira Hass su "Haaretz", un quotidiano d'Israele.
«Cara popolazione della striscia di Gaza, sii responsabile del tuo destino», dicono i volantini lanciati dagli aerei israeliani il 2 gennaio. Se pure in buonafede le intenzioni degli israeliani sono quelle di arrestare il terrorismo di Hamas, il volantino suona agghiacciante. E' come se un sano dicesse allo storpio: "Caro storpio, cerca di camminare in posizione eretta senza zoppicare, così non avremo nessun peso sulla coscienza". Più della metà della popolazione della Striscia è formata da bambini. Allora il messaggio potrebbe suonare così: "Cari bambini della striscia di Gaza, siate responsabili del vostro destino". Bambini che vedono altri bambini feriti, sanguinanti, mutilati, esplosi letteralmente, pezzi di bambini, mani di bambini, teste ruzzolate sull'asfalto.
Cari bambini, siate responsabili dei pezzi di bambini, delle mani di bambini, delle teste ruzzolate sull'asfalto. Cari bambini, festeggiate insieme a noi il nuovo anno, scrutate il cielo per scorgervi ancora i segni delle rose dei fuochi d'artificio, rose candide che lacrimano fra le stelle comete, stelle luminose come la cometa di Betlemme. Intanto la gente affolla i negozi benpensanti nella corsa ai saldi, io pure ho comprato una bella giacca nuova ricamata con fili dorati, io pure me ne vergogno e me ne lavo le mani. Ma le mie mani restano sporche come quelle di tanta gente felice che compra, accumula, riempie frigoriferi, accatasta salumi, affetta panettoni, ingrassa incondizionatamente. Certo, nella Striscia non ci sono solo bambini, è Hamas che festeggia innalzando i mitra al cielo quando viene colpito un obiettivo israeliano, sia pure un palazzo disabitato nel deserto del Negev.
E' caduta la neve, fra un anno che moriva e un altro che veniva alla luce. Una neve soffice, ovattata, che forse aveva l'intenzione (pretenziosa) d'imbiancare le case, avvolgere il paesaggio nel silenzio introvabile, attutire l'odio, stemperare la paura, azzittire i reality, calmare i bambini che piangono, salvare i malati dalle malattie incurabili, chiedere a tutti un po' di silenzio (e riflessione). Un silenzio sistematicamente rimpiazzato dalla televisione che c'inonda di pubblicità inutile, di pensieri superflui, arrivando persino a strumentalizzare la nostra mente durante il giorno, imprimendoci nel cervello quel prodotto con la potenza della musica e dell'immagine.
Se quella stessa neve cadesse su Gaza, si tingerebbe di rosso, incapace di attutire il dolore. Candida neve di purezza impotente, sarebbe una carezza sul viso dei bambini, ma solo una carezza, che non riempie lo stomaco. Se tutte le strade del mondo fossero sgombre dalla guerra, la neve troverebbe spazio per insinuarsi, senza sciogliersi. Riuscirebbe a disegnare morbide colline di calma dove adesso dilagano le macerie dei palazzi.
Il mare non bagna Gaza. Ci pensa il sangue, a tingere la sabbia. Il futuro di Gaza sarà un tempo segnato dal dolore indelebile del sangue scivolato in mille rivoli per le strade. Dimenticare è difficile per tutti, credo impossibile. Ogni ferita si medica col tempo. Per Gaza, il tempo sembrerà interminabile. E' necessario un accordo, ma finché Hamas governerà il popolo attraverso l'odio e la sopraffazione, nessun accordo sarà possibile. E dal cielo, anzicché candida neve, pioveranno agghiaccianti volantini diretti alla popolazione, ai bambini che hanno perso l'infanzia e l'innocenza fra le macerie della loro casa, soli sulla tomba di genitori e fratelli.