sabato 31 gennaio 2009

Quel cagnaccio di Van Gogh.


La luce, in ogni materiale, modifica le immagini rendendole di volta in volta diverse. In Raffaello, la luce impregna i personaggi infondendogli il "respiro", l'anima, potremmo dire, donandogli la forza di perpetuarsi nei secoli con la stessa intensità in cui nacque l'opera d'arte. Raffaello apprese la lezione da quel tale che era Leonardo, che s'ingegnò fino alla sua morte a rendere ineffabile il sorriso della Monna Lisa.
Accade così, per le tele, e soprattutto per i disegni, dove le ombreggiature sono alla base dell'efficacia del soggetto. Quando ci si risveglia con la felicità di aver intuito (non dico còlto) il senso dell'arte, è un passo avanti verso la sua conoscenza che in continuo ci sfugge.
Così Van Gogh scrive in una delle sue lettere a Theo, da Neunen, nel gennaio del 1884:

"Voglio soltanto dirti che fino a tarda età si può avere, e certamente come artisti non meno che come esseri umani - fino a tarda età si può avere una certa maniera di fare come pure di vedere le cose, rigida, impalata, diciamo ferrea, e anche di lavorare - ma ciò malgrado si può raggiungere, negli anni più tardi, una visione più dolce, più intelligente, più ragionevole e infine umana".

Ebbene, è questa visione più dolce, più intelligente, più ragionevole e umana, che cerchiamo con moto estenuante e verso cui tendere fino alla fine dei nostri giorni.
Attraverso l'esercizio della mano, e quindi dello spirito che agisce sul mondo, ma anche per mezzo del mondo che ci sostiene e ci solleva nel cielo delle sue sofferenze o delle sue piccole gioie. Nutrendoci di libri, di cinema, di mostre d'arte, ma anche di storie sconosciute, di povera gente che non trova spazio e viene gettata nella fossa comune della dimenticanza.
Perché l'essere umano è un prodotto contingente frutto d'incontri casuali, a partire da nostra madre e nostro padre che hanno dato inizio alla nostra vita fino agli amici di cui ci circondiamo, all'incontro fortuito con grandi libri da leggere nel chiuso di una stanza o s'un treno, ai quadri che mai avremmo immaginato di poter vedere con i nostri occhi, alla musica che ci avvolge come l'incenso in una chiesa, all'aria stessa che respiriamo, così dolcemente sensuale.
Come ne La doppia vita di Veronica, dove la protagonista lancia la biglia che colpisce il soffitto di uno squallido corridoio e si lascia piovere sul viso la polvere bianca dell'intonaco. Polvere di stelle, luce che carezza le labbra, felicità d'esistere sia pur nella violenza breve di una vita strappata. Similmente, la margherita Dafne di Marisa Madieri verrà "còlta" dall'esistenza, e lasciata appassire nell'erba senza motivo, per il capriccio di un gruppo di ragazzi che la strapperanno con uno schianto al suo sogno di fiore, in una sorta di violenza carnale: "uno strappo, un dolore intenso proprio al centro del creato". Eppure, se la margherita non fosse venuta al mondo, "se avesse continuato a dormire e a sognare, non avrebbe certo sofferto mai, ma non avrebbe neppure avuto la gioia di vedere la bellezza delle cose reali, né conosciuto l'amore, con tutti i suoi rischi".
E' l'arrischiare qualcosa, che consente al nostro essere un avanzare lungo il sentiero della conoscenza. Vivere nel presuntuoso folle progetto di seguire le orme di uomini e donne di cultura, restando umili di fronte al loro insegnamento, sforzandosi di sdebitarsi con il mondo che ci ha offerto un suo luogo in cui lavorare con fervore e costanza. Per essere profondamente altruisti come è scritto nel nostro codice genetico, per alleviare il dolore di chi non ha forza di sollevarsi dalla propria indigenza.
Sono ancora le parole di Van Gogh che ci piace ricordare: " Il mondo mi riguarda solo in quanto sento un certo debito e un senso del dovere nei suoi confronti, perché ho calcato per trent'anni questa terra e, per gratitudine, voglio lasciare di me un qualche ricordo sotto forma di disegni o dipinti - non eseguiti per compiacere un certo gusto in fatto d'arte, ma per esprimere un sincero sentimento umano. Di modo che questo lavoro è la mia meta" (L'Aia, primi di agosto del 1883).

L'arte (in senso lato, sotto tutte le sue forme) è per prima cosa sincera, ingenua, libera. E' una giornata di primavera, ricca di petali e veli, è il bacio di un amante che promette, non importa se manterrà, perché l'istante stesso in cui proferisce parola si prolunga nel tempo, facendo risuonare il suo desiderio di bocca in bocca sulle altre labbra.
L'arte è il risveglio della coscienza, la consapevolezza dei mutamenti che ci attraversano l'anima come tremolii d'onde nel mare, la volontà di migliorare qualcosa, dunque è promessa di pace e abbraccio in cui trovare conforto come il Cristo fra le braccia della madre nella famosa Pietà che il pittore olandese dipinse ritraendo se stesso nel volto di Gesù.

Bisogna attraversare il mondo senza conformismi, tentando di non essere mediocri, diventando comicamente e seriamente ciò che Van Gogh dice di sé: "[Papà e mamma] hanno lo stesso timore di accogliermi in casa che avrebbero se si trattasse di un grosso cagnaccio. [...] Mauve una volta mi disse: 'Troverai te stesso se ti metterai a dipingere, se penetrerai nell'arte più profondamente di quanto tu non abbia fatto finora'. [...]. Ho trovato me stesso - sono quel cane".



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