martedì 30 dicembre 2008

Guerra e pace



No, non si tratta di uno scritto sul romanzo di Lev Tolstoj. E' solo un commento a quanto sta accadendo durante questi giorni in cui si dovrebbe celebrare serenamente il Natale, e sperare in un Nuovo Anno che porti felicità a tutti. Felicità a tutti. Felicità a tutti...
Qui sopra c'è l'immagine di un padre che porta in braccio quel che resta di suo figlio. Un padre di spalle, che si allontana con la morte in petto. E' un palestinese della Striscia di Gaza. No, è un ebreo di Israele, che Hamas vuole cancellare, secondo l'articolo 7 della Carta di Hamas, che prevede la distruzione dello stato di Israele e lo sterminio degli ebrei, invocando nell'articolo 13 alla Guerra santa. E' un palestinese, è un israeliano? No, è un padre. Un padre di spalle, che urla tutto il suo dolore in un dignitoso avanzare. Antonioni c'insegna: i personaggi sono sempre ripresi di spalle, nel momento di crisi, per mostrare la frattura che portano dentro. Solo che questo non è un film. E' la vita reale. E il bambino che porta fra le braccia non è più un bambino. Non è più niente.
Guerra o pace? Distruggere e vendicarsi o accettare in silenzio? Amos Oz, come ogni intellettuale sosterrebbe, chiede a tutti: "Non rinunciamo al sogno di pace".
No, non si può rinunciare ai sogni. Sarebbe come amputarsi un piede. Il piede che manca al bambino per essere di nuovo bambino. Il sangue che scorre via dal suo corpo che ora è soltanto un corpo morto da seppellire. Sarà già stato sepolto, e riposerà in pace. Forse. Le bombe israeliane hanno come obiettivo la distruzione dei tunnel attraverso cui passano le armi iraniane; ma potrebbero piombare anche s'un cimitero. A Gaza City sono finiti i teli per avvolgere i cadaveri, si usano le lenzuola sporche dei letti.
Buon anno a tutti, tra poco siamo nel 2009. Il cielo è splendidamente sereno, non nevica, è un Natale asettico e luminoso.
Tra poco ci butteremo alle spalle il vecchio anno malato, troppo vecchio per continuare il suo cammino, pieno di acciacchi e cataratte, rugoso e avvizzito, tremante e incontinente. Buttiamolo giù dalla finestra, senza che s'accorga, i vecchi non servono a niente, raccontano storie strampalate, sono fuori moda, un ingombro inutile. E se è paralizzato sulla sedia a rotelle, e ci troviamo sulla cima di un colle, diamogli una bella spinta, e facciamolo ruzzolare giù, questo maledetto anno di cui non si può salvare nulla, perché nessuno vuole salvare le cose vecchie, ormai non si ripara più niente, si getta via e si rinnova. Chi vuoi che si metta a rammendare le calze, o a cucire un buchetto nella maglia rossa, o a salvare le tradizioni, a impastare il pane a mano e cuocerlo nel forno di casa, a rinunciare alla lavatrice per le piccole cose, insomma, chi vuoi che torni al passato, quando Francesco Alberoni (giustamente) difende "questa nostra epoca contro i nostalgici del passato", maledicendo (giustamente) l'Inquisizione, "la lapidazione e le pratiche africane che mutilano il clitoride delle donne per impedire loro di godere" (pratica ancora in uso), e ancora, "gli stermini di Stalin, la purezza della razza ariana", e altre assurde pratiche escogitate dall'uomo nel corso dei secoli?
Ortal Ysralh ha 19 anni, vive ad Ashkelon con sua nonna. Il loro scudo anti-Quassam è il tavolo da cucina. Sua nonna non è buona a correre, al suono delle sirene. E le pareti della loro casa sono in gesso, non hanno soldi per rinforzarli. Sui muri di strada, nei manifesti elettorali, si legge: "Bisogna cambiare direzione" e "Dare speranza a chi non ne ha".
Quale speranza? Che direzione prendere? Forse quella del padre che cammina con in braccio suo figlio. La traiettoria dell'odio, o solo del silenzio. Chi potrebbe perdonare un orrore del genere? Se avessero ucciso così mio figlio, non saprei provare che rancore, o falsa accettazione.
Da che parte stare? Se si sta dalla parte di Israele, si uccidono vittime innocenti fomentanto altro odio, altro rancore. Se si sta dalla parte dei palestinesi, si diventa terroristi di Hamas, alleata di Teheran, che in fondo si sta lasciando addomesticare nonostante il suo grido d'indipendenza. L'ayatollah Khamenei usa il bastone e la carota: "Difendete Gaza con ogni mezzo" (bastone), combattete grazie ai finanziamenti stanziati (una carota da ben 350 milioni di dollari solo nel 2007). Intanto a Betlemme si spengono le luci di Natale, almeno a Betlemme. Amos Oz si augura che in Cisgiordania si riprendano i negoziati di pace con l'Autorità Palestinese. Così ci auguriamo anche noi. Affinché quel padre che cammina non incontri solo altro odio, affinché quel padre che cammina abbracci un figlio che un giorno possa davvero riposare in pace.

sabato 27 dicembre 2008

Donne





Ho ricevuto un augurio per tutte le donne, di quelli che si spediscono a catena, come il seguente...


Oggetto: A VOI DONNE Siamo come diamanti...uniche e preziose...il dono più bello che avessimo potuto ricevere è quello di ciò che siamo...Donne!Chi dice donne dice danno...ed è vero perchè danno la vita, danno lasperanza, danno il coraggio, danno il conforto, danno se stesse per amore...Manda questo messaggio a tutte le donne che conosci per far capire loro quanto siano importanti e indispensabili...


E' un bel messaggio, naturalmente, ma quello che mi rattrista è che, ancora alle vicinissime soglie del 2009, noi donne avvertiamo il bisogno di farci coraggio, di dirci che siamo importanti, di ricordare a noi stesse il nostro valore, quanto valiamo rispetto a....Non ne siamo consapevoli, eppure questa società ci impone continuamente un confronto con il sesso maschile, come se la società (e dunque noi stesse donne) ammettesse silenziosamente la superiorità dell'uomo rispetto alla donna che è soggetta a mutamenti repentini d'umore in preda a influssi ormonali, e quindi deve considerarsi più fragile, intellettualmente e fisicamente. Una donna al volante viene considerata un pericolo pubblico, un giudice donna, durante il periodo pre-mestruale, viene vista come incapace di mantenere un atteggiamento realmente obiettivo. Certo, la stragrande maggioranza delle denunce contro la violenza subìta in famiglia o all'esterno delle mura familiari, viene emessa dalle donne, quelle rare donne che hanno il coraggio di esternare il proprio dolore o semplicemente non hanno più la capacità di resistere in silenzio. Questo dimostra che la donna è di fatto più fragile, fisicamente, rispetto all'uomo. Eppure, la maggior sensibilità che le donne possiedono (piangono molto più spesso, hanno un'affettività realmente più complessa rispetto all'uomo) viene interpretata come una mancanza, una debolezza che rispetto all'uomo la rende meno capace, meno professionale, meno competente. Suppongo che la sensibilità diversa, amplificata, sia dovuta al compito gravoso dell'accudire la prole. C'è, a tutti gli gli effetti, una diseguaglianza; ma non sono minimamente convinta, come la società vuol farci credere, che questa diseguaglianza corrisponda a una mancanza, e che la donna debba restare oggetto del maschio, proprietà da rivendicare, da segregare, picchiare, seppellire viva insieme al figlio in grembo. Tutto questo accade in conseguenza dell'accettazione di un certo pensiero ancora serpeggiante nelle famiglie, e cioè insegnare ai maschi che le donne non si toccano nemmeno con un dito: le donne si toccano con tutte le dita, basta farlo con cura. C'è un libro atrocemente bello, che fa rabbrividire ma rende consapevoli molte donne ancora avviluppate nel vortice dell'amore impossibile: Malamore, di Concita De Gregorio:

Quelli che "la donna è sacra", i gentiluomini di casa come i fondamentalisti che la venerano e la velano sono gli stessi che poi la segregano, la violano, la comprano, la battono e la uccidono. [...] Le donne sono uguali. Molto diverse naturalmente ma, sotto il profilo delle possibilità e dei diritti, uguali, è persino imbarazzante doverlo ripetere ancora. [...] Il 70% degli uomini trentenni, in Italia, vive coi genitori. Sette su dieci. Hanno a casa, quasi sempre, la madre. Sarebbe bello immaginare che si dividano equamente i compiti e le responsabilità ma temo che non sia così. L'accorato appello, a sostegno delle giovani donne che prima o poi accoglieranno nelle loro vite quei trentenni, è rivolto alle madri. Si potrebbe cominciare dal non essere particolarmente fiere di aver partorito un figlio maschio.[...] Considerare il fatto che si rifacciano il letto e raccolgano da terra i calzini non un gesto di generosità ma una semplice decenza. [...] Non essere fieri con gli amici della quantità delle loro conquiste sentimentali, non considerare le concomitanze di fidanzamenti multipli naturale segno di virilità, semmai uno sbandamento, una fase passeggera. [...]Non denigrare la fidanzata di turno perché inaffidabile, poco gentile, non premurosa. Per nessun'altra ragione, comunque, meno che mai prendere informazioni sulle sue doti muliebri e mostrarsi interdette se la ragazza ha intenzione di stare via sei mesi per uno stage a Boston.

Non è assolutamente uno dei brano più toccanti, questo citato, ma certamente è il più pratico e corrispondente al reale. La "questione femminile" andrebbe risolta prima di tutto in famiglia, dove meglio che a scuola si apprende come abitudine ciò che è corretto e ciò che non lo è.

La scuola, in questo senso, ha poco potere. Ogni vera consuetudine viene assimilata nel microuniverso della casa.

Malamore si basa sulla favola della Rateta, che molti di noi hanno imparato a conoscere durante l'infanzia. Io ne conoscevo solo una parte: mia madre ha cercato di mettermi in guardia, ma il resto avrei dovuto capirlo con la mia esperienza. La Rateta è una topolina che cerca di sposarsi con il partito migliore. Molti pretendenti le si presentano, ma lei sceglie caparbiamente il gatto, nonostante gli amici la abbiano avvertita che il gatto la mangerà, perché i gatti mangiano i topi ed è inutile provare a cucinare loro carciofi. In realtà, afferma Concita De Gregorio, la sua è una scelta ponderata: solo con un gatto riuscirà a mettersi alla prova, a farlo pretenziosamente cambiare. Si può dire, contro la violenza sulle donne, che la più grande prova di forza è affrancarsene, liberarsi di loro, imparare a evitarli, lasciarli soli. Perché noi donne siamo come diamanti, dice il messaggio, e farsi violare anche solo attraverso le parole ci rende opache, meno luminose, vale a dire infelici. Se il fiore della felicità ci è troppo spesso negato, allora mettiamolo nel vaso della vita con le nostre stesse mani, senz'aspettare che ci venga donato.

domenica 21 dicembre 2008

Ana no


Augustin Gomez-Arcos è un autore pubblicato solo nel 2005 in italiano; mi era del tutto sconosciuto, finché per caso non mi è caduto l'occhio, in una libreria anticonformista, s'un suo libro. In copertina, Composizione astratta di Serge Poliakoff. Come spesso mi accade, l'illustrazione attira il mio sguardo. Inizio a sfogliare il libretto, di dimensioni tascabili.
In genere mi lascio affascinare dalle prime righe. Se l'inizio mi colpisce, allora proseguo in una scorsatina rapida, finché la scorsatina diventa una lettura veloce, e prima che il libraio perda la pazienza decido di comprarlo.
Ana no inizia con una frase imperativa che vale quanto uno schiaffo, per la protagonista e per il lettore:
Ana Paucha, svegliati. Lascia la casa prima che spunti il sole. La luna è morta. Nessuno ti vedrà partire. Nessuno. Né bestia né stella.
Noi stessi siamo spronati ad uscire dal buio della notte, la notte che sta fuori al libro, quella in cui tutti siamo immersi prima di giungere alla luce di una storia: nel libro, si sta come sotto un lampione, mentre tutto il resto è nero e senza stelle.
Ho iniziato a leggere di Ana Paucha, ho cominciato il viaggio assieme a lei. Sentivo la sua fame, avvertivo la sua disperazione, il suo bisogno di attaccarsi a una povera cagna malata come lei stessa, privata della famiglia, eccetto il piccolo. Leggo il libretto nei momenti più disparati, in genere quando non posso leggere comodamente, o quando comunque sono in viaggio. Oggi è capitato che mi trovassi al ristorante, da sola, e mentre aspettavo le portate mi rifugiavo nel cosmo di Ana Paucha. C'è stato un momento in cui ho faticato a restare impassibile. Al ristorante bisogna mantenere un contegno, fingere noncuranza. Io leggevo la storia più triste e atroce che potessi leggere, e per calmarmi ho mandato giù un sorso d'acqua, ma le labbra mi tremavano lo stesso. Alla fine l'ho chiuso, per leggerlo in treno.
Ana no è una storia spietata, ambientata durante il franchismo. La scrittura di Gomez-Arcos ha una forma poetica, una freschezza stellare. Si annusa l'aria dell'Andalusia, si respira il calore delle colline, si attraversano i paesini medioevali, e a fine giornata si avverte la stessa stanchezza sfibrante, la stessa mancanza-assenza che corre come un filo rosso lungo tutto il libro: niente più calore e affetti familiari, niente più speranza, niente più amore. Un'assenza che si traduce in un'inevitabile negazione: Ana no, appunto.
Lo stesso lettore è chiamato a trasformarsi in un niente, a traballare malfermo in compagnia di una povera vecchia dagli abiti laceri, e ad assistere impotente a scene che tolgono ogni desiderio di proseguire il viaggio alla ricerca dell'unico figlio (forse) sopravvissuto. Eppure questa recherche deve continuare senza troppi affetti o esitazioni, si è costretti a inghiottire l'aspro del dolore, perché la vita ci toglie gli affetti uno ad uno e almeno nella vecchiaia bisogna imparare a non farsi prendere per le viscere, a mostrarsi indifferenti, in questo mondo dove solo i benestanti possono ricevere stabilità e sicurezza, ma non amore, in quanto vuoti manichini incapaci di provarne (le ricche dame: abbastanza distratte da congelare il sorriso. I baci si fanno e si disfano, impotenti, a qualche millimetro dalle guance truccate, lasciando un vuoto che l'affetto sociale così visibilmente esibito non riesce a colmare, un vuoto di indifferenza).
Ana no è un grido, una poesia scritta sui muri, una frase sussurrata fra due amanti, un verso sincero d'animale, al confine fra l'umanità e il bestiale, e dunque ferocemente ingenuo, spontaneo, forse più vero dei sentimenti che mostriamo abitualmente a chi ci sta vicino, quasi un monologo con noi stessi, da non dimenticare.

giovedì 18 dicembre 2008

Morale ed immorale


Avrei voluto che questo luogo potesse rappresentare una parentesi alle storture attuali. Avrei voluto scrivere in queste pagine come in una radura, d'estate, dove il vento fresco scompiglia i capelli e l'aria salamastra del mare vicino fa respirare a pieni polmoni. Mi sono illusa, anche se per poco, di poter innalzare una parete, come Marlen Haushofer, invisibile, trasparente, ma al di quà della quale salvare l'inviolabile, urlare per la resistenza dei valori fondamentali, sorreggere i giusti, nutrirmi e respirare di arte, l'Arte vera, nel tentativo di carpire il segreto della nostra presenza, della nostra venuta al mondo. Nel tentativo di capire quale direzione stiamo seguendo, come fece Gaugain con il suo celebre dipinto Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?.


Tutto questo non è possibile. Non si può ricreare una sorta di Decameron attraverso un Blog; non sarebbe nemmeno umanamente corretto. La raccolta di novelle boccaccesche nasce dalla possibilità di pochi eletti di allontanarsi dalla Firenze colpita dalla peste e trastullarsi per dimenticare l'orrore. Non è nelle intenzioni di questo Blog. Il tentativo di isolarsi, cui accennavo sopra, non intendeva rappresentare l'idea della differenza sociale e culturale, inevitabile in età medioevale, ma voleva solo porsi come un punto di osservazione consapevole. E' scrivendo questo, e riflettendo su questo, che tuttavia avvertivo il distacco violento con la realtà dei paesi poveri come il Zimbabwe, in cui attualmente sta imperversando una terribile quanto inarrestabile epidemia di colera. Sono stupita: siamo in possesso di conoscenze approfondite e adeguati strumenti di lotta come gli antibiotici, eppure abbandoniamo ancora esseri umani inermi di fronte al proprio destino, lasciandoli consumare dal Vibrio cholerae. Questo, domando: si può, ancora oggi, morire per un'epidemia di colera? E' accettabile che delle vite umane restino senza acqua, e siano costrette a vivere immerse in fognature a cielo aperto, denutrite, senza più speranza, mentre noi assistiamo all'impietoso spettacolo mostrato dai telegiornali, quasi assuefatti alla tragedia quotidiana, come se si trattasse di un documentario s'un paese straniero, lontano, le cui sorti (magnifiche sorti e progressive) non ci preoccupano più di tanto?
Allora qual è il senso della Bellezza, come posso ancora proseguire il disegno, con la consapevolezza che mentre tratteggio sulla carta delle vite misere si stanno spegnendo?
Siamo crivellati dai colpi della pubblicità, che invita al consumismo nonostante il periodo di crisi, eppure, quanti di noi sarebbero disposti a rinunciare, non solo al panettone e ai beni superflui, ma al riscaldamento della casa, all'acqua corrente che sgorga felicemente e normalmente nel lavandino della nostra cucina, e nella vasca da bagno dove ogni giorno ci laviamo con un bagnoschiuma profumato (i benpensanti e benlavati che puzzano di cesso, ricorda Elsa Morante)? Allora non bisognerebbe più scrivere, non si dovrebbe più creare, ci si dovrebbe rinchiudere in una fortezza vuota, in un isolamento totale, ma sarebbe solo un modo per essere vigliacchi più dei veri vigliacchi. Per questo, anche se attraverso momenti di sconforto, avvertendo la mia impotenza di fronte al sistema, credo si debba andare avanti con le proprie capacità, senza per questo voltare le spalle a ciò che dovrebbe essere considerato moralmente giusto.

mercoledì 17 dicembre 2008

Fornarina

Ho modificato l'immagine della Fornarina: da adesso è visibile per intero.
Ho l'impressione di essermi scoperta: come se lei fosse la mia immagine, prima mostrata solo attraverso uno scorcio. I suoi occhi, fino a pochi istanti fa fissati solo sulla carta, visibili nel chiuso di una stanza, ora possono viaggiare attarverso lo sguardo degli altri collegati in rete. Un viaggio virtuale, in grado di percorrere interminabili distanze stando comodamente in posa in attesa di essere conclusa. Ancora non ho trovato il tempo per definirne le vesti. Eppure lei è là, nella perfezione dell'incompiuto. Lo stesso Raffaello non era riuscito a portare a termine la sua opera, assorbito da altri lavori fino all'ultimo respiro, la Trasfigurazione. Ma nessuna mano, nemmeno la più esperta e sensibile, può imitare il tratto del "pittor divino".

martedì 16 dicembre 2008

Il tempo della pioggia

Mi rifugio nella pagina come un uccello nel nido. La stanchezza della giornata si fa sentire. Fuori piove, una pioggia interminabile. La pioggia concilia il sonno, addolcisce la tensione del giorno, conduce a una misurata riflessione. Spesso mi domando se non sia più reale la realtà del mondo sulla carta, piuttosto che quanto ci circonda. Credo che i reality, i programmi assurdi e surreali come Uomini e donne, gli abusi di potere sul posto di lavoro, le violenze più o meno subite e soffocate dentro, siano in realtà prodotti della nostra mente in dormiveglia. Il sonno della ragione genera mostri, soleva dirsi Goya, oppure si potrebbe citare Pedro Calderon de la Barca, la vita è sogno. Forse la società moderna si ritrova in una sorta di inconsapevole veglia a se stessa, fuori di sé, accanto al proprio corpo, incapace di svegliarlo.
Siamo un immenso organismo addormentato, crediamo di spostarci velocemente, percepiamo il tempo come lo percepisce un'intelligenza superiore, convinti di poterlo governare. Se solo potessimo vederci da un altro pianeta con un potente telescopio, dal futuro, o magari al rallentatore, diminuendo la velocità delle nostre azioni e ascoltandoci emettere versi gutturali, saremmo in grado di renderci conto dell'immensa povertà di spirito diffusa in ogni ambiente, della vigliaccheria e falsità ipocrita che muove milioni di persone, dei fantocci che gesticolano e scimmiottano sullo schermo o per la strada. E forse potremmo illuderci di cambiare, perché il vedersi con distacco potrebbe consentire una salvifica autocritica. E saremmo anche in grado di percepire il tempo come unità fondante lo spirito, occasione da dilatare, opportunità da cogliere, non come sofferenza che c'inscatola nelle nostre misere esistenze.



Il taglio dell'immagine rassomiglia alla copertina del libro di Antonio Forcellino, "Una vita felice".
Tuttattavia il mio disegno risulta ancora più emblematico. Forse perché non si è trattato di un'operazione consapevole, ma del frutto casuale della mia inesperienza sull'utilizzo degli strumenti del Blog.

Inizio




...L'inizio è un po' come trovarsi nel buio dell'universo, in mezzo alle stelle, alla deriva nel vuoto. Il silenzio ci circonda. Non una nota, non un rumore. Soltanto lo spazio, come quello sterminato della pagina bianca...Ogni pagina vuota ha il suo delirante silenzio, la sua stella che brilla in qualche angolo. Chissà se qualcuno ci ascolta, o siamo solo noi stessi insieme a noi stessi.
Non c'è pericolo di cadere nel vuoto: il vuoto ci avvolge come una morbida culla foderata di seta scura, ci sostiene, rassicura. L'inizio, per ogni scrittore, è una sorta di regressione infantile, in un'età prenatale, in una tenebra che già si sta rischiarando per diventare luce.
Ogni pagina bianca è uno strappo, un'imene penetrata, una barriera infranta. E' come tuffarsi per la prima volta con la maschera e il respiratore: i polmoni sono forzati dall'aria delle bombole, si respira più velocemente. Ma poi l'ansia svanisce nel momento in cui ci si apre come per incanto l'incredibile mondo sommerso, i colori degli organismi di cui sino ad allora ignoravamo l'esistenza supponendo erroneamente che fossimo soli al centro dell'universo.
L'inizio è come la prima volta: il primo bacio, il primo figlio, il primo stipendio. Non tornerà più, l'inizio, non si ripeterà ancora. Perché i nostri sentimenti saranno mutati, e noi stessi saremo diversi.