martedì 19 ottobre 2010

La discarica dove si va a morire.


Via Passanti è chiusa, bloccata da pietre e rottami. Spettrale. Di solito ci trovi le auto in coda, la sera, le pizzerie illuminate piene di gente che prende una pizza per asporto, le macellerie dove viene esposto "o per e o muss", trippa, muso e piede del maiale, colori a tinte forti come ne "la Vucciria" di Guttuso; e poi, se sei fortunato, ci trovi le "lummate" a cavallo delle strade, le illuminazioni per le feste. Stavolta no. Oggi c'è solo il vento che corre e smuove qualche cartone gettato in strada. La gente protesta. Sta costruendo barricate, come nelle Cinque Giornate di Milano del nostro Risorgimento. Non per proclamare l'indipendenza dal resto del Paese come tenta disperatamente la Lega qui da noi. Perché vuole vivere. Ne ha il diritto, come il resto degli italiani. Non chiede il lusso, non reclama la ricchezza; domanda la vita.

La discarica di Terzigno esiste da che mi ricordi. Ci andavamo nell'infanzia, più su, sulle pendici dello "sterminabil monte Vesevo", per una manciata di more. Avevo paura di perdermi, sul Vesuvio. Ci sono gli scorpioni, i cani abbandonati che girano in branchi, le pigne che cadono e ti fanno sobbalzare all'improvviso. E c'è la discarica, un territorio lunare, grigio, pieno di camion che vanno e vengono e rilasciano sostanze tossiche o concerogene, che tracimano nelle falde dell'acqua. Quella che la popolazione beve, o usa per lavarsi. No, non ci credete, non può esser vero. Eppure la gente muore. Ci sono sempre più giovani, ricoverati negli ospedali. Una di queste si chiamava Amelia. Amelia aveva quarant'anni, faceva l'architetto. Ma cos'avrà mai avuto da costruire, direte, se in Campania la speculazione edilizia sfiora le stelle? Eppure Amelia le aveva raggiunte, le stelle. Cinque giorni prima che si sposasse, le avevano diagnosticato un tumore all'intestino. Amelia è sempre stata forte, amava la vita. Si è curata, è andata avanti per sei anni fra alti e bassi. Quando l'ho incontrata, era paralizzata nel letto, intubata con il sondino, incontinente, un berrettino da baseball a coprirle la testa calva. Il marito cercava di farla sorridere, le aveva portato una giostra da parte della suocera, che non si era fatta vedere, forse soffriva, a vederla così. Aveva una pelle stupenda, liscia, luminosa. Quando glie l'ho fatto notare, mi ha sorriso. Era pienamente lucida e cosciente. Il suo sorriso bastava da solo a illuminare tutti gli infelici. Ma ad Amelia era stato riservato quel letto d'ospedale in un paese della Campania, un ospedale fatiscente, le pareti scrostate, i corridoi puzzolenti di fumo di sigaretta.

Già, direte, ma quale nesso c'è fra Amelia e l'intifada a Boscoreale?

L'Italia non sa, o non vuole sapere, che Amelia è la popolazione stessa che resta, la gente che spera e che lotta per i propri figli, che piuttosto che abbandonare la sua terra alla camorra ha deciso di restare, e farsi rispettare. Amelia non c'è più. Ma Amelia vive ancora attraverso chi si oppone alla sciagurata decisione dello Stato di mandare a morire migliaia d'innocenti.
Questa strage silenziosa deve fermarsi. L'Italia non finisce al Centro, ma si estende oltre, e comprende anche i "terroni" che hanno scelto di rimanere al Sud. I confini non vanno riscritti, vanno semplicemente ampliati i confini del cuore.


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