Così, capita talvolta che non si abbia niente da dire, abbrutiti dalle false speranze o dal pessimismo che ci riempie le tasche, mentre i nostri pensieri ritornano s'un argomento che ci è caro. Riflettevo s'un articolo letto qualche giorno fa, scritto da Edoardo Boncinelli, che fa riferimento a "Nati per credere". Secondo questo testo, di tre autori diversi, l'essere umano, indipendentemente dalla sua religione, si comporta come un cucciolo bisognoso di cure, che agisce nella (falsa/vera) credenza che qualcuno "pensi a noi e non ci ignori". Falsa e vera al contempo: posto che Dio non esista (dunque falsa), in ogni caso c'è l'umanità intera a raccogliere il nostro messaggio (e ciò rende vera la convinzione che ci permea).
Da questo consegue che "la fede in un essere superiore che ci segue dall'alto e può giudicarci favorisca il comportamento altruistico, o almeno non troppo egoistico, necessario per lo sviluppo di una vita sociale". Quando, o meglio, fino a che punto una vita, e l'agire che la determina, può definirsi sociale?
Può forse la guerra essere considerata un'azione sociale, cioè utile al bene di una comunità? La risposta è affermativa nel caso questa si consideri mezzo per ristabilire l'ordine delle cose, dunque per porre fine all'offesa ricevuta da un paese. Ma qui intervengono questioni religiose e culturali che affondano le loro radici nell'assetto geopolitico del paese colpito.
In sostanza, proseguendo il discorso abbandonato di Tutte le strade del mondo, Israele ha scelto di colpire Gaza affinché cessassero le azioni terroristiche perpretrate da Hamas. Si è però accusato lo stato d'Israele di sproporzione, di usare una forza eccessivamente superiore a quella palestinese. Che lo stato ebraico sia indubbiamente più forte, e che sia la causa della strage che si sta verificando nella Striscia, è indiscutibile. Certo la guerra non ha pietà per nessuno, e appare senza senso contare i morti o stilare percentuali: un morto non vale meno di mille, e la sofferenza di un bambino ferito resta sofferenza incolmabile, terribilmente disumana.
Hamas, in questo, non ha niente di altruistico: usa scudi umani, si avvale della squallida strategia del terrore. In questo senso, non mira al benessere della comunità palestinese, ma si caratterizza per un'ideologia distruttiva (autodistruttiva) che si avvicina a quella della Germania nazista: cancellare gli ebrei anche a costo di perdere.
A questo punto viene da chiedersi: quale fede può nutrire Hamas? Ciò che muove i terroristi palestinesi sembra essere unicamente l'odio, dunque si tratta di una malafede (consapevole). In nome dell'indipendenza palestinese, mettendo in primo piano la causa civile (lo stesso termine hamas significa entusiasmo, zelo: una specie di Forza Italia, mi riferisco al termine, non alla consistenza politica), mascherano il loro rancore con quanto di positivo possa trasmettere il nome dell'organizzazione terroristica.
A questo punto viene da chiedersi: quale fede può nutrire Hamas? Ciò che muove i terroristi palestinesi sembra essere unicamente l'odio, dunque si tratta di una malafede (consapevole). In nome dell'indipendenza palestinese, mettendo in primo piano la causa civile (lo stesso termine hamas significa entusiasmo, zelo: una specie di Forza Italia, mi riferisco al termine, non alla consistenza politica), mascherano il loro rancore con quanto di positivo possa trasmettere il nome dell'organizzazione terroristica.
Il secondo punto su cui si sofferma l'articolo, il cui credo sembra favorire la perpetuazione della specie umana e la persistenza nella memoria dei nostri antenati, è rappresentato dalla "fede in qualche forma di sopravvivenza del corpo o di una parte di essa [che] aiuti a superare il terrore della fine, fondamentale per noi che siamo gli unici animali a sapere che moriremo".
L'essere gli unici animali consapevoli della morte ci rende infelici e limitati: quanto potrebbe rivelarsi utile percepire la morte attraverso i sentimenti di un animale? In fondo gli elefanti ne sono (in parte?) consapevoli, dal momento che tornano sul luogo dove è morto un proprio antenato e strusciano la loro proboscide contro i suoi resti.
Raccogliere ricordi affinché non vengano inghiottiti dall'oblio è il senso che spinge il protagonista ebreo Jonathan Safran Foer a ripercorrere i luoghi in cui è vissuto suo nonno, nel film Ogni cosa è illuminata.
« I ricordi servono per non dimenticare, ciò che viene seppellito non è perché noi lo troviamo ma perché lui venga trovato. »
A Gaza, molto è stato seppellito e molto sarà dimenticato: il tempo della pace scivola come olio nel pozzo nero del passato. Ma come per la shoah Primo Levi ammonisce noi che viviamo sicuri nelle nostre tiepide case perché non dimentichiamo, così possiamo proseguire il nostro cammino come animali sociali soltanto guardando il mondo con gli occhi di chi non potrà mai dimenticare.
Non per nutrire il rancore latente mai sopito dalle interminabili tregue, ma per ristabilire un tempo duraturo di pace.
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