Quando si finisce di leggere le "Lettere a Theo", con tristezza, perché si vorrebbe che non si esaurissero mai ma procedessero insieme a noi, prendendo parte alla nostra stessa vita, ci si ritrova attoniti, stupidi, sbigottiti, stanchi, con le guance infiammate come dopo un lungo pianto, insicuri, malfermi nelle proprie convinzioni, ma in fondo con una sola certezza: l'Arte è il prodotto di un furore, intendendo come tale una forza che guida la ragione al di fuori di sé, vale a dire verso il soggetto stesso da rappresentare. E' una concentrazione di forze che confluisce in un cielo, in un filo d'erba (quello tanto apprezzato da VG nei giapponesi), in un riflesso, in un colore come materia espressiva, anima stessa del pensiero trasposto sulla tela.
Comprendiamo come L'Arte, quella sincera e intelligente, che non mira al successo ma solo alla propria purezza d'esistere, come l'aria fresca all'alba, come l'acqua di una sorgente, limpida e originaria, l'Arte possa davvero consolare e salvare gli animi, e che non si tratta di idealismo, ma di realtà concreta: carne e sangue dell'artista diventano carne e sangue di colori, di note, di parole.
"I pittori", scrive VG alla metà di luglio del 1888, "quando sono morti e sepolti parlano con le loro opere a una generazione successiva o a diverse generazioni successive. [...] La vista delle stelle mi fa sempre sognare, come pure mi fanno pensare i puntini neri che rappresentano sulle carte geografiche città e villaggi. Perché, mi dico, i punti luminosi del firmamento ci dovrebbero essere meno accessibili dei punti neri della carta di Francia? Se prendiamo il treno per andare a Tarascon[...], possiamo prendere la morte per andare in una stella".
VG davvero esiste attraverso le sue opere tramandate a noi, avvertiamo il suo battito sfogliando le pagine di diario, così come nel fondo di una sinfonia di Brahms, dietro le dolcissime note di un violino disperato percepiamo il respiro dell'autore, il suo amore perverso per le cose, oppure attraverso le parole di un poeta riusciamo a sfiorare le stelle senza muoverci dalla nostra posizione terrestre, tenendogli soltanto la mano.
Il valore di un'opera non si misura a denaro, nonostante il frutto dell'artista debba necessariamente essere sottoposto al giudizio del pubblico e dunque quotato come merce; il valore si misura senza strumenti di precisione, eppure la percezione che ne abbiamo è estremamente precisa: è il nostro sentimento, unitamente alla nostra esperienza e al vissuto stratificato in noi, che ci concede l'opportunità di percepire l'opera, il simbolo che rappresenta e la sua traduzione in quel linguaggio intimo e segreto che scorre nel nelle nostre vene e dà forma ai sogni.
"Scoprirò allora che non soltanto le belle arti, ma che anche il resto non erano che sogni, che noi stessi non eravamo nulla del tutto. Ma se siamo così leggeri, tanto meglio per noi, perché niente si oppone allora a una possibilità illimitata di esistenza futura" (6 agosto 1888).
La leggerezza e la trasparenza d'animo conducono l'artista in uno stato di grazia che lo eleva nel cielo dell'illimitato, dove la realtà concreta confluita nella tela si riflette incessante nella realtà suprema eternizzata attraverso il semplice gesto dell'autore che l'ha ri-creata. Un processo di solidificazione della luce in colore, mediante il quale il mormorio di un ruscello può essere ancora percepito attraverso i nostri sensi, in questo caso l'occhio, che vede il ruscello divenuto grumo di azzurro e celeste e bianco di zinco, proprio come accade nella sinestesia.
"Anche un bambino nella culla, se lo si osserva con calma, ha l'infinito negli occhi" (ibid.).
L'infinito, nel caso delle lettere e dei quadri di VG, riecheggia nella nostra vita con intensità e vitalità immutate, come nell'istante in cui sono venute alla luce parole e colori.
Non andrà smarrito, ma si riverserà, sia pure con voce debole o minor intensità di luce, in altre mescolanze di tonalità, altre parole.
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