La frase "Restiamo umani" conclude ogni reportage di Vittorio Arrigoni, http://guerrillaradio.iobloggo.com/, 33 anni, pacifista italiano che ha scelto di non abbandonare Gaza ma, al contrario, di viverci, per quanto possibile. "Restiamo umani" implica il rischio di non riuscire nel tentativo, cioè di divenire dis-umani, inghiottiti dal caos della follia che accerchia l'essere e lo rende fragile di fronte alle atrocità commesse in guerra, vulnerabile dinnanzi all'apparente indirezione di senso dell'umanità. Van Gogh è stato uno fra questi. Sembra stridente, dissacrante, voler parlare d'arte in questi giorni. Eppure l'arte che viene secreta dall'uomo può ancora, forse, con la sua ingenua pretesa di eguguagliare gli esseri, fornire un senso a ciò che finora senso non ha avuto. La guerra "non è una lezione universitaria", afferma B. Netanyahu, e all'ospedale di Rafah arrivano "uomini, giovani, il cervello che cola dalla testa" (L. Cremonesi).
Israele ha colpito persino i depositi inviolabili dell'Onu, che di inviolabile non avevano più nulla, dal momento che una stessa scuola è stata presa a bersaglio pochi giorni fa. Due cannonate sono cadute sull'ospedale Al Quds della Croce Rossa. Una madre palestinese viene portata a braccia da un uomo e una bambina, presumibilmente marito e figlia. E' avvolta da un lenzuolo bianco vistosamente macchiato di sangue vivo, lo sgomento negli occhi, le mani chiare a trattenere il lenzuolo e la disperazione. Basta. Basta così. Non c'è più speranza, sembra, Israele sta mietendo più vittime possibili prima dell'insediamento di Obama. Basta, sangue. Non abbiamo più scorte di sopportazione. Non sappiamo più incassare senza reagire. Stiamo diventando dis-umani, stiamo scivolando nel gioco perverso di Hamas. In Olanda, dove Van Gogh ha compiuto il suo percorso (felice, infelice) si è gridato: "Hamas, Hamas, gli ebrei nelle camere a gas!". Millecentotentatré morti. Fino ad ora, 16 gennaio, ore 19:11. Un sedicenne è stato ucciso ad Hebron, durante una manifestazione.
Hamas, ancora Hamas. Gli ebrei, siamo noi. Siamo noi che giudichiamo ciò che in fondo noi stessi avremmo fatto come nazione. Gli ebrei sono tutti i popoli costretti a reagire, a torto o a ragione, ma in fondo costretti. Ogni guerra è una costrizione.
Hamas, Hamas per sempre. Nascere durante un conflitto che si tramanda ormai da generazioni, non può che generare altro odio. Ogni guerra implica errori tattici di chi governa, successi machiavellici, sconfitte clamorose, sbandamenti nell'opinione pubblica, fratture nelle masse, e ancora odi, odi profondi, cicatrici inguaribili, che nessuno potrà mai sanare. Abbiamo superato una linea di confine. La linea che separa la ragione dalla follia, l'odio dall'amore, la pace dalla violenza, la vita dalla morte. Abbiamo superato la linea sottile dietro la quale avremmo potuto vedere nitidamente gli eventi, ormai sfocati in un alone d'indeterminatezza. Un sangue lava l'altro, se Israele sbaglia deve pagare con altro sangue, o con l'embargo, affinché si renda conto degli errori commessi. E dopo? Come si risolverà l'eterno conflitto fra sionisti e islamici? Letteralmente, il significato di "Gerusalemme" indica il "Monte della Pace". Potrà mai esserci una Pace, un'unione, una convivenza senza rancori? Esiste un muro, fra Gerusalemme Est (palestinese) e Gerusalemmme ovest (israeliana). Come esisteva a Berlino, divisa fra Berlino Est e Berlino Ovest, e come ancora esiste nella nostra placida italianissima sconosciuta Gorizia, ancora divisa fra Gorizia e Nova Gorìza, due nazioni unite da un unico nome: di fatto si tratta di città diverse, nonostante siano in parte scomparsi i gabbiotti dei doganieri.
Bibbia contro Corano. E l'infanzia tradita, l'infanzia calpestata, l'infanzia violentata, l'infanzia uccisa. I bambini dei campi profughi, finite le ore di studio, marciano con il fucile in spalla. Apprendono a combattere. Un muro. Un muro innalzato fra i popoli. Un muro da abbattere. La tragedia deve finire. L'infanzia ha diritto d'esistere. Non per marciare contro un futuro nemico, ma per andare incontro al proprio destino umano, perché non diventi un destino disumano.
Ieri ho potuto guardare negli occhi Van Gogh, in uno dei tanti autoritratti. Trovarsi fisicamente davanti alla sua immagine pittorica non ha nulla da spartire con l'oggettività reale del ritratto stampato, e tuttavia offre una verità al quadrato: la densità materica dei colori brillanti ci conduce in presenza di Vincent, consentendoci d'ascoltare il mormorio dell'umanità attraverso la violenza del suo sguardo spietato, portandoci fra gli ulivi squassati dal vento che in fondo assurgono a simbolo dell'umanità ferita e della sofferenza che ciascuna coscienza vigile implica, in quanto la conoscenza è già sofferenza. Van Gogh, che dipingeva spesso su carta perché non aveva denaro per usare la tela, Van Gogh, al quale la vita ha donato un successo postumo e beffardo, così scrive, in merito al suo lavoro: "Quanto al valore in denaro del mio lavoro, non oso dir altro se non che mi meraviglierei molto se col tempo il mio lavoro non dovesse diventare altrettanto vendibile quanto quello degli altri. Naturalmente non posso sapere se questo si verificherà ora o più avanti, ma ritengo che la via più sicura, che non può fallire, è di lavorare dalla natura con fedeltà ed energia. Prima o poi il sentimento e l'amore della natura dovranno provocare una reazione in persone che si interessino d'arte. E' dovere del pittore essere completamente preso dalla natura e usare tutta la sua intelligenza nel suo lavoro per esprimere il sentimento, di modo che la sua opera possa divenire intelliggibile agli altri".
Gli ulivi rappresentavano la sua tragedia interiore, la sua lucida tagliente visione del mondo. Una collina che resta ancora lontana al cammino dell'umanità che le va incontro, ma dove un giorno gli ulivi potranno significare sincerità, apertura, speranza, e infine, ciò che gli ulivi stessi hanno da sempre simboleggiato, la cui parola, a esprimerla nel nostro tempo, suonerebbe come vuota retorica.
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