Augustin Gomez-Arcos è un autore pubblicato solo nel 2005 in italiano; mi era del tutto sconosciuto, finché per caso non mi è caduto l'occhio, in una libreria anticonformista, s'un suo libro. In copertina, Composizione astratta di Serge Poliakoff. Come spesso mi accade, l'illustrazione attira il mio sguardo. Inizio a sfogliare il libretto, di dimensioni tascabili.
In genere mi lascio affascinare dalle prime righe. Se l'inizio mi colpisce, allora proseguo in una scorsatina rapida, finché la scorsatina diventa una lettura veloce, e prima che il libraio perda la pazienza decido di comprarlo.
Ana no inizia con una frase imperativa che vale quanto uno schiaffo, per la protagonista e per il lettore:
Ana Paucha, svegliati. Lascia la casa prima che spunti il sole. La luna è morta. Nessuno ti vedrà partire. Nessuno. Né bestia né stella.
Noi stessi siamo spronati ad uscire dal buio della notte, la notte che sta fuori al libro, quella in cui tutti siamo immersi prima di giungere alla luce di una storia: nel libro, si sta come sotto un lampione, mentre tutto il resto è nero e senza stelle.
Ho iniziato a leggere di Ana Paucha, ho cominciato il viaggio assieme a lei. Sentivo la sua fame, avvertivo la sua disperazione, il suo bisogno di attaccarsi a una povera cagna malata come lei stessa, privata della famiglia, eccetto il piccolo. Leggo il libretto nei momenti più disparati, in genere quando non posso leggere comodamente, o quando comunque sono in viaggio. Oggi è capitato che mi trovassi al ristorante, da sola, e mentre aspettavo le portate mi rifugiavo nel cosmo di Ana Paucha. C'è stato un momento in cui ho faticato a restare impassibile. Al ristorante bisogna mantenere un contegno, fingere noncuranza. Io leggevo la storia più triste e atroce che potessi leggere, e per calmarmi ho mandato giù un sorso d'acqua, ma le labbra mi tremavano lo stesso. Alla fine l'ho chiuso, per leggerlo in treno.
Ana no è una storia spietata, ambientata durante il franchismo. La scrittura di Gomez-Arcos ha una forma poetica, una freschezza stellare. Si annusa l'aria dell'Andalusia, si respira il calore delle colline, si attraversano i paesini medioevali, e a fine giornata si avverte la stessa stanchezza sfibrante, la stessa mancanza-assenza che corre come un filo rosso lungo tutto il libro: niente più calore e affetti familiari, niente più speranza, niente più amore. Un'assenza che si traduce in un'inevitabile negazione: Ana no, appunto.
Lo stesso lettore è chiamato a trasformarsi in un niente, a traballare malfermo in compagnia di una povera vecchia dagli abiti laceri, e ad assistere impotente a scene che tolgono ogni desiderio di proseguire il viaggio alla ricerca dell'unico figlio (forse) sopravvissuto. Eppure questa recherche deve continuare senza troppi affetti o esitazioni, si è costretti a inghiottire l'aspro del dolore, perché la vita ci toglie gli affetti uno ad uno e almeno nella vecchiaia bisogna imparare a non farsi prendere per le viscere, a mostrarsi indifferenti, in questo mondo dove solo i benestanti possono ricevere stabilità e sicurezza, ma non amore, in quanto vuoti manichini incapaci di provarne (le ricche dame: abbastanza distratte da congelare il sorriso. I baci si fanno e si disfano, impotenti, a qualche millimetro dalle guance truccate, lasciando un vuoto che l'affetto sociale così visibilmente esibito non riesce a colmare, un vuoto di indifferenza).
Ana no è un grido, una poesia scritta sui muri, una frase sussurrata fra due amanti, un verso sincero d'animale, al confine fra l'umanità e il bestiale, e dunque ferocemente ingenuo, spontaneo, forse più vero dei sentimenti che mostriamo abitualmente a chi ci sta vicino, quasi un monologo con noi stessi, da non dimenticare.
In genere mi lascio affascinare dalle prime righe. Se l'inizio mi colpisce, allora proseguo in una scorsatina rapida, finché la scorsatina diventa una lettura veloce, e prima che il libraio perda la pazienza decido di comprarlo.
Ana no inizia con una frase imperativa che vale quanto uno schiaffo, per la protagonista e per il lettore:
Ana Paucha, svegliati. Lascia la casa prima che spunti il sole. La luna è morta. Nessuno ti vedrà partire. Nessuno. Né bestia né stella.
Noi stessi siamo spronati ad uscire dal buio della notte, la notte che sta fuori al libro, quella in cui tutti siamo immersi prima di giungere alla luce di una storia: nel libro, si sta come sotto un lampione, mentre tutto il resto è nero e senza stelle.
Ho iniziato a leggere di Ana Paucha, ho cominciato il viaggio assieme a lei. Sentivo la sua fame, avvertivo la sua disperazione, il suo bisogno di attaccarsi a una povera cagna malata come lei stessa, privata della famiglia, eccetto il piccolo. Leggo il libretto nei momenti più disparati, in genere quando non posso leggere comodamente, o quando comunque sono in viaggio. Oggi è capitato che mi trovassi al ristorante, da sola, e mentre aspettavo le portate mi rifugiavo nel cosmo di Ana Paucha. C'è stato un momento in cui ho faticato a restare impassibile. Al ristorante bisogna mantenere un contegno, fingere noncuranza. Io leggevo la storia più triste e atroce che potessi leggere, e per calmarmi ho mandato giù un sorso d'acqua, ma le labbra mi tremavano lo stesso. Alla fine l'ho chiuso, per leggerlo in treno.
Ana no è una storia spietata, ambientata durante il franchismo. La scrittura di Gomez-Arcos ha una forma poetica, una freschezza stellare. Si annusa l'aria dell'Andalusia, si respira il calore delle colline, si attraversano i paesini medioevali, e a fine giornata si avverte la stessa stanchezza sfibrante, la stessa mancanza-assenza che corre come un filo rosso lungo tutto il libro: niente più calore e affetti familiari, niente più speranza, niente più amore. Un'assenza che si traduce in un'inevitabile negazione: Ana no, appunto.
Lo stesso lettore è chiamato a trasformarsi in un niente, a traballare malfermo in compagnia di una povera vecchia dagli abiti laceri, e ad assistere impotente a scene che tolgono ogni desiderio di proseguire il viaggio alla ricerca dell'unico figlio (forse) sopravvissuto. Eppure questa recherche deve continuare senza troppi affetti o esitazioni, si è costretti a inghiottire l'aspro del dolore, perché la vita ci toglie gli affetti uno ad uno e almeno nella vecchiaia bisogna imparare a non farsi prendere per le viscere, a mostrarsi indifferenti, in questo mondo dove solo i benestanti possono ricevere stabilità e sicurezza, ma non amore, in quanto vuoti manichini incapaci di provarne (le ricche dame: abbastanza distratte da congelare il sorriso. I baci si fanno e si disfano, impotenti, a qualche millimetro dalle guance truccate, lasciando un vuoto che l'affetto sociale così visibilmente esibito non riesce a colmare, un vuoto di indifferenza).
Ana no è un grido, una poesia scritta sui muri, una frase sussurrata fra due amanti, un verso sincero d'animale, al confine fra l'umanità e il bestiale, e dunque ferocemente ingenuo, spontaneo, forse più vero dei sentimenti che mostriamo abitualmente a chi ci sta vicino, quasi un monologo con noi stessi, da non dimenticare.
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